Palandrane, vesti da camera e abiti lunghi per nascondere il disagio di vivere.

La compagnia teatrale Le belle bandiere nasce nel 1993 con la direzione artistica di Elena Bucci e Marco Sgrosso attori, autori, registi che hanno fatto parte del nucleo storico del Teatro di Leo di Leo de Berardinis dal 1985 al 2001, partecipando a quasi tutti gli allestimenti teatrali prodotti nel periodo.

Da diverso tempo è ricorrente e qualificata presenza nel tabellone delle stagioni di prosa organizzate dal C.T.B.

Quest’anno si presenta all’affezionato pubblico bresciano con il dramma «La casa dei Rosmer» (titolo originale «Rosmersholm») composto dal celeberrimo drammaturgo norvegese Henrik Ibsen.

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L’Autore:

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Henrik Johan Ibsen, drammaturgo, poeta e regista teatrale, nasce a Skien nel 1828 e muore a Oslo nel 1906. Attraverso le sue opere (tra le quali segnaliamo «Casa di Bambole», «Spettri», «La donna del mare» ed «Hedda Gabler») ha portato in scena e messo a nudo con grande sagacia e fantasia le contraddizioni della borghesia ottocentesca. È universalmente considerato uno dei fondatori del movimento teatrale modernista, uno stile di teatro incentrato sulle interazioni domestiche e uno dei padri della drammaturgia moderna.

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L’opera:

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La casa dei Rosmer è stato scritto fra il giugno e il settembre 1886 a Monaco. Fu messo in scena, per la prima volta, il 17 gennaio 1887 al Norske Theater di Bergen. Il protagonista Rosmer è un vedovo quarantenne. Sua moglie Beate si è suicidata. Alla villa abita anche Rebekka West, trentenne e molto seducente. Rosmer la chiede in matrimonio, ma lei rifiuta, rivelando di aver spinto Beate a togliersi la vita. Così Rosmer e Rebekka trovano che il loro amore è impossibile e decidono di morire insieme. Il dramma si svolge in un ambiente aristocratico dove i bambini non piangono e dove solo di rado si sente ridere. La vera protagonista del dramma è Rebekka che porta in casa Rosmer un certo fermento acre con la sua vita spregiudicata e avventurosa. Per amore di Rosmer segue l’esempio di Beate e con lei si suicida il protagonista stesso, che nella morte vede l’unica via per espiare.

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Lo spettacolo:

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Al di là della magistrale qualità del testo portato in scena, della semplice ma suggestiva scenografia, della bravura ormai certificata di Elena Bucci e Marco Sgrosso (degnamente affiancati dalla recitazione nitida e senza sbavature dei compagni di scena Emanuele Carucci Viterbi, Francesco Pennacchi e Valerio Pietrovita, tutti pienamente calati nei personaggi interpretati) sono l’originalità del progetto drammaturgico e le scelte registiche a meritare particolare attenzione.

La scrittura complessa e articolata della scrittura, tipica della produzione di Ibsen vengono infatti affrontate con assoluto rispetto ma al tempo stesso in modo del tutto originale. Sia nel progressivo sviluppo della narrazione che nei singoli personaggi del dramma si alternano infatti i chiaroscuri di una problematica presa di coscienza individuale e collettiva, sia le luci e le ombre nette proiettate da una visone calvinista-ottocentesca del mondo e della morale, tra repressi e inconfessabili desideri di trasgressione e laceranti rimorsi non solo di quanto si è compiuto ma anche di quel che ci si è limitati a pensare, nell’incombente presenza di un passato che non vuole saperne di rimanere tale.

Intenzione ben tradotta sul palcoscenico e confermata in modo simbolico appunto dalla scelta dei costumi che paludano gli attori e che mi ha suggerito il titolo di questa recensione. A conferma che, qualche volta, è proprio l’abito che fa il monaco.

Anzi, il pastore.

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