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È in scena fino a domenica prossima, presso il Teatro Sociale di Brescia, il dramma «Moby Dick», tratto dall’omonimo romanzo di Herman Melville. adattamento di Micaela Miano, con protagonisti Moni Ovadia e Giulio Corso, per la regia di Guglielmo Ferro. Sul palcoscenico anche Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Filippo Rusconi, Moreno Pio Mondì, Giuliano Bruzzese, Marco Delle Fratte; le scenografie sono di Fabiana Di Marco, i costumi di Alessandra Benaduce, le musiche di Massiliano Pace, per una produzione Centro Teatrale Bresciano, Teatro Quirino, Compagnia Molière.
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L’Autore e l’Opera:
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Herman Melville, autore di “Moby Dick”, ancora oggi considerato uno dei capolavori della letteratura americana, nacque a New York nel 1819. Figlio, insieme ad altri sette, di un agiato mercante, all’età di undici anni, a seguito del tracollo finanziario del genitore (in seguito al quale quest’ultimo manifestò una grave patologia psichica che poi lo portò al decesso) fu costretto a trasferirsi con il resto della famiglia nel villaggio di Lansingburgh, abbandonando di conseguenza gli studi e impegnandosi in lavori umili necessari a dare sostegno all’economia familiare.
Fondamentali per il concepimento e la scrittura di “Moby Dick” furono le sue esperienze marinare, che lo portarono prima a imbarcarsi come mozzo sulla nave St. Lawrence diretta a Londra, poi (nel 1841, dopo una parentesi di oltre due anni che lo vide dedicarsi all’insegnamento) sulla baleniera Acushnet salpata alla volta dell’Oceano Pacifico. Un episodio che, con ogni probabilità, costituì la base e lo spunto per la composizione della sua opera più famosa e celebrata.
Dopo alcuni successi letterari, l’interesse del pubblico nei confronti delle sue opere diminuì notevolmente e Melville decise così (nel 1857) di abbandonare la scrittura narrativa. Sposato dal 1847 con Elizabeth Shaw, dopo alcune disavventure della propria famiglia (tra le quali la morte prematura di due figli di cui uno per suicidio) nel 1890 Melville venne contrasse una grave malattia della pelle che, l’anno successivo, lo condusse alla morte nella natia New York.
«Moby Dick» (Moby Dick, or the Whale), pubblicato nel 1851 e riscoperto negli anni 20 dalla critica che lo indicò come pietra angolare della tradizione letteraria americana, è considerato la massima espressione del romanzo statunitense dell’Ottocento. Il romanzo si basa sulla narrazione in prima persona da Ismaele, membro dell’equipaggio della nave baleniera Pequod, comandata dall’oscuro e tormentato capitano Achab, dell’operazione di pesca finalizzata alla caccia della mitica “balena bianca” Moby Dick. Un autentico mostro del mare che, in una precedente occasione, aveva mutilato gravemente il capitano (ora assetato di vendetta al limite dell’ossessione) privandolo di una gamba.
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Lo spettacolo:
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L’adattamento di Micaela Miano e la direzione del regista Guglielmo Ferro, mantenendo una rispettosa coerenza al testo di Herman Melville, ripropongono l’eterno tema (duplice tema) del confronto spesso aspro tra uomo e natura e quello parallelo dell’uomo con i propri limiti. In ciò è di grande aiuto la sontuosa scenografia, materiale ed elettronica, felicissima opera di Fabiana Di Marco. Tutto, nello spettacolo, procede nella stessa direzione: dalle cupe tonalità dei colori che dipingono la scena alla recitazione spesso “gridata” dell’equipaggio della baleniera (maledetta, stregata? Fate voi Pequod che spesso si rifugia in quel sarcasmo esagerato e in quelle ballate marinaresche e popolari (rievocate e composte da Massiliano Pace) che così bene vengono cantate da chi è ubriaco o da chi, per non soccombere a un’arcana paura, attraverso la musica intende soprattutto farsi coraggio.
Tutti bravi gli attori in scena, a partire dall’interpretazione del cupo e allucinato capitano Achab nei cui panni si cala in modo estremamente naturale e convincente Moni Ovadia e dal più razionale e compassato (ma non per questo meno tormentato) primo ufficiale Starbuck, reso sulla scena da Giulio Corso, che trasmettono agli spettatori in modo impeccabile l’atmosfera che grava sulla nave e sul suo equipaggio in attesa dell’incontro con una mostruosa creatura che non appare mai ma che incombe non solo sul palcoscenico ma sull’intera sala. Il ritmo della rappresentazione, adeguatamente serrato dal primo all’ultimo momento, vale a stemperare il linguaggio letterario del romanzo originale che si è evidentemente (e coraggiosamente) deciso di mantenere e a renderlo del tutto commestibile anche per gli spettatori di una sala teatrale.
Il pelo nell’uovo? La troppo standardizzata, dunque banalizzata (a mio avviso) caratterizzazione del personaggio marinaio polinesiano Queequeg, che non abbandona il suo arpione, stando a quanto appare nella rappresentazione, neppure quando è l’ora dei pasti o quella di andare a dormire. Ciò a prescindere dall’assoluta validità della prestazione attoriale del bravissimo Pap Yeri Samb che ne indossa in scena gli esotici panni.
La frase simbolo: «Noi uomini siamo come verricelli che girano senza fine mossi dal destino».
Prolungati e assolutamente convinti, nonché pienamente meritati, gli applausi della platea al calare del sipario.
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.composte da Massiml
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