Quattordici nel cast (per la maggior parte giovani attori) e, se si aggiungono regista, aiuto, scenografo etc. etc. si arriva al ragguardevole di ben ventuno artisti/professionisti coinvolti nella realizzazione di questo nuovo, e a suo modo innovativo, allestimento di «Sogno di una notte di mezza estate» la cui prima è andata poco fa in scena presso il Teatro Centrale di Brescia. Circostanza non di poco conto, ove si consideri che a seguito delle varie situazioni che si sono succedute negli ultimi tempi (a partire dala pandemia per arrivare al conflitto in Ucraina, passando per i rincari subiti dalle principali materie prime e la conseguente inflazione mondiale) la tendenza delle Compagnie è quella di mettere in scena che conportino davvero il minimo numero di interpreti.
Come sono solito fare, e come ben sanno coloro che hanno la bontà di seguire le mie recensioni, al racconto e alla critica dello spettacolo sono premessi cenni sulla storia dell’opera e della sua trama. Quanto al drammaturgo, un certo William Shakespeare da Stratford upon Avon, sospetto che molti di voi già ne sappiano qualcosa e comunque di lui hio avuto modo di parlare anche recentemente in uno dei miei precedenti articoli (relativo al «Mercante di Venezia») che potrete recuperare grazie a questo link:
Tutto ciò premesso, è arrivato il momento di occuparci più da vicino del nostro visionarissimo«Sogno».
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L’opera:
La commedia scritta da William Shakespeare nel 1595 è considerata uno dei massimi capolavori del drammaturgo inglese e, ancora ai nostri giorni, è una delle opere più rappresnetate nei teatri di tutto il mondo.
Dopo il debutto la pièce non venne più rappresentata nella sua versione integrale fino alla metà del XIX secolo. Del 1692 è il riadattamento musicale di Henry Purcell dal titolo The Fairy Queen, una versione diversa dall’originale che vede il personaggio di Bottom nei panni del protagonista. Nel 1840 Sogno di una notte di mezza estate fu consacrata da una rappresentazione al Covent Garden di Londra, voluta da Madame Vestris che si mise in gioco in prima persona interpretando il folletto Oberon, re del bosco delle fate. Dopo il successo dell’adattamento di Vestris il mondo del teatro iniziò a considerare la commedia shakesperiana portandola di nuovo sui palcoscenici di tutto il mondo. Fu l’inizio di un successo che perdura ancora oggi. Lo scenario fiabesco e i numerosi e originali personaggi garantirono la fama dell’opera, che nel 1841 fu addirittura musicata dal compositore tedesco Felix Mendelssohn.
Nel 1999 dalla commedia shakesperiana fu anche tratto un film omonimo per la regia di Michael Hoffman che vedeva Michelle Pfeiffer nei panni della regina Titania, Sophie Marceau nel ruolo di Ippolita e Christian Bale nei panni di Demetrio.
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La trama:
La commedia comprende tre distinte storie, che convergono verso la celebrazione del matrimonio tra Teseo, duca di Atene, e Ippolita, regina delle Amazzoni.
Atene è in subbuglio, a breve si celebreranno le nozze del duca Teseo e della regina delle amazzoni, Ippolita. Egeo, padre della bella e ribelle Ermia, chiede udienza al duca: sua figlia non vuole sposare il nobile Demetrio. La fanciulla ha occhi solo per Lisandro e l’idea di dover affrontare la morte o la clausura per aver disobbedito al volere paterno, come prevede la legge, non la spaventa. Teseo consiglia alla giovane di pensare bene a quello che sta facendo ma, come frequentemente accade, l’amore si rivela più forte della ragione: Ermia e Lisandro decidono di lasciare la città e fuggire, dandosi appuntamento nel bosco che sorge nei pressi di Atene. Elena, altra graziosa fanciulla ateniese, è innamorata di Demetrio. Cosa fare per conquistarlo e strapparlo dall’incanto che lo incatena alla rivale? Avendo assistito al dialogo tra Ermia e Lisandro, lei conosce il segreto dei due innamorati e forse, rivelando la verità al caro Demetrio, riuscirà in qualche modo a conquistarlo. I quattro si ritrovano nel bosco, in una notte molto particolare. Il destino dei giovani umani si intreccia agli intrighi della corte fatata. Oberon e Titania, re e regina di elfi e fate, non vanno molto d’accordo. Lui vorrebbe per sé il nuovo paggio della capricciosa Titania che, però, lei non è affatto disposta a cedere! Oberon incarica Puck, il suo fedele servitore, di procurarsi il succo di un fiore in grado di far innamorare la regina del primo essere che vedrà al risveglio. In questo modo non penserà più al suo paggio e Oberon potrà averlo! Il re, tra le ombre del bosco, ascolta i discorsi dei ragazzi di Atene. Ordina a Puck di far innamorare Demetrio di Elena, che l’amore trionfi! Ma il folletto è un pasticcione, e scombina l’ordine delle coppie. Dunque Titania, regina delle amazzoni s’innamora di un artigiano che indossa una maschera da asino. Chiappa, questo il nome dello sventurato, si trova nel verde della selva assieme ad altri umili concittadini per le prove di uno spettacolo in onore del duca Teseo. Titania però, dopo averlo visto, non vuole più lasciarlo andare; si è perdutamente innamorata del bellissimo uomo con la testa d’asino. Oberon ha ottenuto ciò che voleva, chiede a Puck di mettere ordine tra le coppie e scioglie l’incanto che lega la regina e lo sfortunato Chiappa. Il giorno dopo, Teseo ascolta il racconto di Demetrio: l’amore per Ermia si è dissolto, adesso ama Elena. Non ci sarà più un solo matrimonio, ma tre. Alla cerimonia nuziale gli artigiani offrono uno spettacolo poco credibile ma molto divertente.
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Lo spettacolo:
La pièce è una delle più semplici e al tempo stesso complesse tra quelle scritte da Shakespeare e il regista Andrea Chiodi, valendosi della traduzione / adattamento di Angela Dematté, si è impegnato a portarla in scena cercando di darne un’impronta per quanto possibile originale.
Una lettura delle tre storie (Entità, Vip e Guitti) effettuata su piani diversi anche dal punto di vista puramente visivo: corna di ogni dimensione per fauni, elfi e fate (o streghe), ampie e comode tuniche per i Vip e pantaloni e camicia per gli sgangherati attori della compagnia che sta preparando lo spettacolo che dovrà arricchire le sfarzose nozze ducali/regali di prossima celebrazione.
In comune per tutti e per tutto, in modo trasversale, quella satira giocosa (e spesso piuttosto sapida) alla quale anche il Grande Bardo non poteva fare a meno di ricorrere per far ridere, anzi sganasciare, anche il popolo minuto che, in qualche modo, magari in natura, affluiva agli spettacoli del tempo, consentendo la materiale sopravvivenza di attori e musici. E anche dei drammaturghi.
Andrea Chiodi, a torto o a ragione, ha deciso in proposito di calcare la mano, puntando sul divertimento degli stessi interpreti (che hanno espresso un eccellente livello medio di recitazione e si sono impegnati con passione nei ruoli rivestiti) nel trasparente intento di contagiarne il pubblico, spingendo a tavoletta l’acceleratore, soprattutto per ciò che riguarda la compagnia di guitti, di una sguaiata ‘allegria di stampo riconoscibilmente gogliardico.
Riuscendoci, almeno a giudicare dal consenso ripetuto e clamoroso riscosso al momento del chiudersi del sipario.
Regia attenta e pulita, agile nella gestione dei tempi e degli spazi. Essenziale ma suggestiva la scenografia, apprezzabili e gradevoli gli inserti musicali.
Per quanto mi riguarda, un appunto però mi sento di farlo: mi è risultata francamente incomprensibile la decisione di somministrare agli spettatori in soluzione unica una rappresentazione di oltre due ore, tra l’altro caratterizzata da una trama complessa all’inverosimile, senza il conforto e il ristoro di un intervallo tra il primo e il secondo tempo. Contraddicendo tra l’altro proprio colui che in nessun modo nessuno può contraddire: un certo William Shakespeare che scrivendo il testo, evidentemente non a caso aveva optato per una struttura in cinque atti.
«Erano altri tempi!», obietterà qualcuno. «Siamo nel terzo millennio! I tempi di vita e di attenzione sono profondamente cambiati!». «È l’era di Internet e della sua velocità di comunicazione e di fruizione!»
Tutto vero. Me ne rendo conto e non ho nessuna intenzione di difendere a oltranza la divisione in cinque atti, ma vi assicuro che almeno la rappresentazione in due avrebbe molto agevolato gli spettatori.
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di William Shakespeare
traduzione e adattamento Angela Dematté
regia Andrea Chiodi
con (in o. a.) Giuseppe Aceto, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Caterina Filograno, Igor Horvat, Jonathan Lazzini, Sebastian Luque Herrera, Alberto Marcello, Marco Mavaracchio, Cristiano Moioli, Alberto Pirazzini,Emilia Tiburzi, Anahì Traversi, Beatrice Verzotti
scene Guido Buganza
costumi Ilaria Ariemme
musiche Zeno Gabaglio
disegno luci Pierfranco Sofia
coaching Tindaro Granata
assistente alla regia Walter Rizzuto
assistente alla drammaturgia Gianluca Madaschi
produzione LAC Lugano Arte e Cultura
in coproduzione con Centro Teatrale Bresciano, Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano, Fondazione Atlantide – Teatro Stabile di Verona
partner di ricerca Clinica Luganese Moncucco
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