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Dopo i consensi incassati al Teatro Franco Parenti di Milano in occasione della prima nazionale, approda al Teatro Sociale di Brescia Brescia «Caduto fuori dal tempo», la nuova produzione (curata da Mismaonda) di Centro Teatrale Bresciano, TPE – Teatro Piemonte Europa e ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione) al Teatro Sociale di Brescia.
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IL LIBRO
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Una sera, in una città di un luogo immaginario, un padre si alza da tavola, prende commiato dalla moglie ed esce per andare “laggiù”. Ha perso un figlio, anni prima, e “laggiù” è dove il mondo dei vivi confina con la terra dei morti. Non sa dove sta andando, e soprattutto non sa cosa troverà. Lascia che siano le gambe a condurlo, per giorni e notti gira intorno alla sua città e a poco a poco si unisce a lui una variegata serie di personaggi che vivono lo stesso dramma e lo stesso dolore: il Duca signore di quelle terre, una riparatrice di reti da pesca, una levatrice, un ciabattino, un anziano insegnante che risolve problemi di matematica sui muri delle case. E l’uomo a cui è stato affidato l’incarico di scrivere le cronache cittadine. Ciascuno ha la propria storia, chi ha perso il figlio per una grave malattia, chi in un incidente, chi in guerra. Insieme a loro idealmente, visto che non può muoversi dalla sua stanza, c’è anche una strana figura di Centauro, con la parte inferiore del corpo che nel tempo si è trasformata in scrivania. E uno scrittore che da quindici anni vive circondato dagli oggetti del figlio che non c’è più, e il cui unico desiderio da allora è catturare quella morte con le parole. «Non riesco a capire qualcosa finché non la scrivo» dice. È lui a ispirare e a inglobare la storia.
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L’AUTORE
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David Grossman vive vicino a Gerusalemme. È sposato ed è padre di tre figli, Jonathan, Ruth ed Uri, morto nell’estate del 2006 durante la guerra del Libano, vicenda alla base del suo lavoro più famoso. È considerato tra i più grandi scrittori e romanzieri contemporanei, noto per il suo stile semplice ed avvincente. La sua attività di sostegno alla sinistra israeliana, in particolare al Partito Laburista, dai tempi di Yitzhak Rabin e la sua posizione critica riguardo alla politica governativa nei confronti dei palestinesi, attirano su di lui, da sempre, le critiche della destra israeliana.
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LO SPETTACOLO
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Qualcuno, riferendosi al titolo di questo articolo, opporrà che si tratta di un paradosso matematico, impossibile da incontrare nella realtà.
Invece no. Soprattutto nel Teatro può accadere, e in questo caso, a mio modesto avviso, accade.
Allora vediamoli nel dettaglio, questi addendi.
Recitazione: Elena Bucci e Marco Sgrosso sono due degli attori più convincenti del panorama teatrale nazionale e, in questa occasione, superano se stessi.
Regia (ancora Elena Bucci): semplicemente inappuntabile. Serrata, evocativa, coinvolgente.
Scenografia: letteralmente superlativa, soprattutto nell’incredibile finale, tra luci, colori spettrali e fumi che rapiscono lo sguardo e l’immaginazione degli spettatori.
Musica: tutta eseguita dal vivo, dalla fisarmonica suonata magistralmente da un Simone Zanchini ispirato e appassionato.
Scrittura: elegante, appropriata, con numerosi passaggi e perifrasi di assoluta eccellenza letteraria. Viene in mente, tra le altre, la frase pronunciata dall’uomo che ha perso il giovane figlio in guerra, parlando del sordo e costante dolore che lo tormenta: «Nella mia mente c’è qualcuno che cammina sulle foglie secche.»
Eppure…
… eppure c’è qualcosa che non funziona. Quello creato in palcoscenico è un mosaico di sensazioni forti, che alla fine, nell’assenza assoluta di “cose che accadono” diventa persino monotono e scontato. Una ballata funebre senza speranze, certamente interessante da leggere in un libro, con un’adeguata predisposizione alla sofferenza, ma palesemente non idonea a essere portata in palcoscenico. Una contemplazione di una morte senza speranze, senza effettiva possibilità di riscatto né di ripartenza di chi rimane. Un messaggio (contro le atrocità della guerra) condivisibile ma non certo portatore di novità. E chi potrebbe dichiararsi in disaccordo? Un esercizio dialettico confermato ad abundantiam da quel continuo alternarsi di spazi all’interno della scenografia, che ricorda lugubramente il sollevarsi e il richiudersi di pietre da sepolcro, destinate alla fine a restare serrate per l’eternità.
Una spiegazione c’è, dunque. Non tutto ciò che è scritto, anche fosse un capolavoro, è adatto a essere portato in palcoscenico. E, se così accade, non basta la bravura eccezionale di attori, registi, scenografi e musici per sovverire la realtà.
Tutto qui: ad impossibilia nemo tenetur dicevano i padri latini. E loro sì che se ne intendevano. Anche di Teatro.
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