È mancato un anno, soltanto uno, l’ultimo, perché Nathalie Sarraute, scrittrice francese di origine russa (i manoscritti della quale sono attualmente tutti depositati presso la Bibliothèque Nationale de France e le cui opere, nel 1999, sono entrate nella “Pléiade” la prestigiosa collezione Gallimard in cui sono inseriti solo i più grandi scrittori, staccasse tutti e cento i fogli del grande calendario del ventesimo secolo. Nata a Ivanovo (Russia) il 18 luglio 1900, e deceduta a Parigi il 19 ottobre 1999, Nathalie Sarraute, nata in una famiglia borghese, ebrea e piuttosto agiata, brillante giurista specializzata in diritto internazionale, moglie del collega, Raymond Sarraute e madre di tre figlie, comincia a scrivere da giovane, ma raggiunge la meritata notorietà solo dopo il 1950, grazie anche alla presentazione della ristampa dei suoi primi due libri fatta da Jean Paul Sartre. Arrivata alla letteratura attraverso la scoperta della letteratura del XX* secolo (in particolare Marcel Proust, James Joyce e Virginia Woolf) e un percorso di ricerca narrativa imperniata sull’esplorazione di moti psicologici al limite dell’inconscio (i cosiddetti tropismi e la famosa sotto-conversazione) anche grazie alla lettura di grandi autori come Fëdor Dostoevskij, Franz Kafka e Ivy Compton-Burnett, Nathalie Sarraute si assicura importanti quanto prestigiosi riconoscimenti tra i quali (nel 1982) il Grand Prix national des lettres ricevuto dal Ministero della Cultura francese.
«Pour un oui ou pour un non», testo in scena al Teatro Sociale di Brescia fino al 14 aprile prossimo, lo scrisse nel 1982.
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Il testo:
In «Pour un oui ou pour un non» non succede molto. Anzi, per meglio dire, quel che doveva succedere è successo, in un giorno indefinito di un indefinito passato. E cosa è successo? Niente. Niente di fisicamente significativo, niente di dinamico, tantomeno niente di drammatico, semplicemente l’intonazione e l’articolazione di una frase piuttosto banale, che ha lavorato e scavato nella mente di uno dei due personaggi (chiamati semplicemente -e non certo a caso- “a” e “b”) fino a scavarci dentro una voragine che una lunga e sincera amicizia non è più in grado di colmare. O, al contrario, invece delle parole pronunciate, sono quelle non dette che hanno causato il danno maggiore? La mancanza del coraggio e della voglia di comunicare, per esempio. Non aspettatevi una risposta, né una qualsiasi soluzione: dall’incomunicabilità più assoluta (e/o dall’eccesso di ricettività e di sensibilità individuale e sociale) non si può mai o quasi mai tornare indietro. Non si può mettere riparo, nenache chiedendo aiuto ad altri. Che peso ha, una parola? Quello che, nelle intenzioni, vorrebbe comunicare chi la pronuncia o quella che recepisce colui che l’ascolta?
Perché è questo, il messaggio del testo, reso più complesso e impreziosito dal continuo rincorrersi, in un frenetico rimpiattino giocato in un labirinto di specchi, o arrampicandosi in una ragnatela cosparsa di colla, di parole, pause, sottintesi e malintesi. di silenzi non meno sfuggenti e perigliosi. Con un sorprendente (ma poi mica tanto) coup de theatre finale, stavolta preceduto e accompagnato dall’accattivante e languido accompagnamento di una fisarmonica che suona fuori, nella strada.
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Lo spettacolo:
La scena è unica: nel grande e luminoso soggiorno, ravvivata dal rosso vivo del divano centrale, fa da sfondo il candore di una grande liberia dagli scaffali bianchi, riempiti di libri bianchi. Lente e languide note di pianoforte non lasciano presagire quale (silenziosa) tempesta si scatenerà tra i due personaggi, impersonati da quegli autentici mattatori del palcoscenico e tra gli ultimi attori degni veramente di questo appellativo, che rispondono ai nomi (in rigoroso ordine alfabetico) dei sempre verdi e sempre vigorosi Franco Branciaroli e Umberto Orsini.
Probabilmente, se non gli unici, i più idonei a trasmettere le inflessioni, le sensazioni e esternazioni del più, almeno apparentemente, rilassato dei due (FB) e del più ombroso (UO), padroni come sanno essere della scena e degli spazi. I più capaci di trasmettere in una specie di immediata e straordinaria osmosi, agli spettatori che affollano la platea, quel senso di disagio che deriva, come si è visto dall’analisi del testo, da “parole che non ci sono state“, “parole che si nascondono“, qualcosa che “non è niente, ma proprio niente“, eppure…
Soltanto loro due, o nessuno meglio di loro due, diretti con maestria dal traduttore (in ogni senso) e regista Pier Luigi Pizzi, nel cavare fuori dalle proprie anime e dalle proprie viscere il malessere causato da sensazioni ed emozioni al tempo stesso colpevolmente sottovalutate e accantonate e troppo a lungo ruminate, che escono allo scoperto in modo devastante, quasi esplosivo. in un confronto letterario e semantico, oltre che psicologico.
Una comunicazione asperrima che, pur mantenuta nei limiti educati di una conversazione amicale, grazie all’abilità degli interpreti, finisce nella percezione di chi assiste allo spettacolo, con forza dirompente, causando lo stesso disagio che provocherebbe una disputa a suno di improperi e urla.
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