L’anagramma di Giuliana Musso: forse casuale, ma geniale

Una settimana esatta dopo Elena Bucci, ecco che arriva a esibirsi sul palcoscenico allestito nel Chiostro di Santa Chiara un’altra magnifica interprete. E, parlando di (grandi) “interpreti“, fate caso a come, anagrammando questa parola, si ottenga né più né meno un efficace definizione di ciò che ha visto (e vedrà ancora nella serata di mercoledì) il pubblico di Brescia appassionato di Teatro e affezionato alla rassegna estiva come ogni anno impeccabilmente organizzata dal Centro Teatrale Bresciano: “in tre preti“. Ed è esattamente questo che fa in modo mirabile Giuliana Musso, attrice veneta orgogliosa di esserlo: calarsi nei panni di tre singolari sacerdoti la cui narrazione le permette di parlare della religione cattolica, dei seminari, della chiesa e molto ma molto di più.

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«La fabbrica dei preti» è una pièce multimediale (scritta dalla stessa Giuliana Musso) che miscela armonicamente recitazione, musica e immagini fotografiche.

Si parte dal Concilio Vaticano II e, precisamente, dal celeberrimo “Discorso della luna“, pronunciato a braccio da Giovanni XXIII, il Papa buono, la sera del l1 ottobre 1962.

«Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Troverete qualche lacrima da asciugare. Fate qualcosa, dite una parola buona. Il Papa è con noi specialmente nelle ore della tristezza e dell’amarezza».

Parole dolci e struggenti, che rappresentarono, però, l’inizio di una autentica rivoluzione per “le cose di chiesa” che ancora oggi è in corso e chissà quando si compirà definitivamentre e, soprattutto, dove porterà.

Proprio ai giovani entrati in seminario prima del Concilio e ordinati preti dopo la sua conclusione, con una dedica speciale a don Pier Antonio Bellina, sacerdote friulano 100% dalla vista lunga e davvero fuori dagli schemi, che questo monologo è ispirato.

Sono tre le figure raccontate da vecchie, con lo sguardo inevitabilmente orientato al passato. Tutti e tre preti, naturalmente.

Il primo è un sacerdote malinconico e disincantato, che ha scelto la tonaca benché avesse “paura di Dio”. Ripercorre con amara autoironia il lungo percorso che lo ha portato a provare sulla propria pelle quanto possa essere urticante il contrasto tra i precetti e le pulsioni della carne. «Non mi ci è voluto coraggio, per prendere la decisione di sposarmi: quella che davvero ne ha avuto, per dire la verità, è stata mia moglie», confessa, prima di riconoscere che, suo malgrado, malgrado tutto, una volta prete si resta prete per sempre.

Il secondo personaggio è uno che in seminario non ci sarebbe voluto andare ma che non ha avuto la forza e il coraggio per opporsi davvero a decisioni familiari non sue e cheha sempre provato il desiderio, struggente e inappagato, di tornarsene a casa. Un prete ribelle, che contesta l’interpretazione del ruolo che viene imposta, ma nonostante tutto convinto a servire Dio con il massimo impegno anche materiale, oltre che spirituale. Un prete operaio, o qualcosa di simile. Un visionario, capace di distillare concetti filosofici e sociali del tipo «Il lavoro non è un valore, è un fattore» ma anche di analisi popolare della storia, come questo: «la vera particolarità, il vero motore delle innovazioni portate dal ‘900 non è stata la classe operaia, è stata la donna». Sarcastico, provocatorio nel coinvolgimento spudorato del pubblico seduto in platea.

Il terzo è un prete abusato. «Nessuno sa cosa succede in seminario. Lo sanno solo i ragazzini» è la sua amara testimonianza. E l’abuso, naturalmente, lo marchia per tutta la vita, portandolo a isolarsi, ad atrofizzarsi. L’unico autentico amore (che resta inespresso) è per un compagno di seminario, poi la depressione peggiora, viene ricoverato in psichiatria e, una volta dimesso, continua a studiare da prete, ma lo fa da casa, sotto l’ombra di una madre incombente. Un’altra figura, stavolta femminile, Marta, eterea e romantica, sfiora la sua esistenza, ma senza mai realmente intersecarla. «Io e Marta avevamo più o meno gli stessi nodi, ma i nodi non si sciolgono certo mettendoli insieme; così Marta è partita» e in quelmomento, seppure non biologicamente, la sua vita è finita.

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Se seguite questa rubrica di recensione teatrale, sapete bene che non mi piacciono i superlativi e, soprattitto, che non sono uno di quelli “di bocca buona”. In questo caso, però, non posso che definire pressoché perfetta l’esibizione di una Giuliana Musso in grandissima forma e capace di suscitare profonda empatia con il pubblico presente al Chiostro Santa Chiara che alla fine, infatti si spella le mani in un lunghissimo e meritato applauso. Delle foto virate in seppia e odorose di passato e dell’accorto corredo musicale, abbiamo già accennato.

Il consiglio è: se riuscite a farlo, non perdete la replica di stasera.

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