La sapienza pirandelliana sulla crisi d’identità è un patrimonio… Kollettivo!

Ieri sera (e fino al 6 novembre), è andato in scena «Come tu mi vuoi», pièce in tre atti finita di scrivere da Luigi Pirandello  nel 1929, vale a dire nell’anno che, con il crollo di Wall Street segnò una tappa fondamentale nella storia (non solo economica) del mondo. La prima si tenne l’anno successivo, nella prestigiosa sede del Teatro dei Filodrammatici. A portarla in scena presso il Teatro Sant’Afra in questa stagione del CTB è la milanese Invisibile Kollettivo. La compagnia nasce nel 2017 dal “reincontro” tra Elena Russo Arman, Franca Penone, Alessandro Mor, Lorenzo Fontana e Nicola Bortolotti, i quali, dopo aver incrociato i loro percorsi di attori con maestri come Ronconi, Strehler, Stein, Cobelli, De Capitani, Lavia, Martone, e avendo praticato singolarmente la regia e la scrittura per la scena, si uniscono e realizzano, con il sostegno produttivo del Teatro dell’Elfo, un dittico sul tema dell’identità: “L’Avversario” di Emmanuel Carrère e “Open” di Andre Agassi (debutto al Napoli Teatro Festival 2019), spettacoli in cui, dalla drammaturgia ai manufatti utilizzati all’aspetto visivo in generale, tutto viene realizzato collettivamente.

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L’autore:

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Luigi Pirandello nasce ad Agrigento nel 1867, da una famiglia dell’agiata borghesia, proprietaria di una miniera di zolfo, che ha partecipato attivamente alla campagna garibaldina in Sicilia. Dopo aver frequentato il liceo classico a Palermo, Pirandello si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma.  Nel 1889 si trasferisce a Bonn, dove resta per un anno come lettore d’italiano. Nel ’91 si laurea con una tesi sul dialetto di Agrigento. Rientrato in Italia, si stabilisce con la famiglia a Roma ed entra nella vita culturale e letteraria del suo tempo, collaborando a numerosi periodici: stringe amicizia con Luigi Capuana, mentre resta ostile a Gabriele D’Annunzio. Nel ’97 assume, come incaricato, l’insegnamento di Letteratura italiana presso l’Istituto superiore di Magistero a Roma, diventando nel 1908 professore ordinario. Nel 1903 una frana con allagamento distrugge la miniera di zolfo nella quale erano stati investiti sia i capitali di suo padre che la dote di sua moglie, la quale, già sofferente di nervi (sospettava continuamente che il marito la tradisse), si ammalò gravemente, cominciando a manifestare i primi segni di uno squilibrio psichico che la condurrà poi in manicomio. Un’autentica tragedia familiare alla quale Pirandello reagì dedicandosi alla scrittura. Le sue novelle, raccolte poi col titolo Novelle per un anno, e i suoi romanzi (L’esclusa, Il turnoIl fu Mattia Pascal e altri), nonché i suoi saggi (in particolare L’umorismo) passarono quasi inosservati. La celebrità giunse soltanto in età matura, quando -a partire dal 1916- si rivolse quasi interamente al teatro. Le sue commedie, talvolta accolte con dissensi clamorosi, si imposero al pubblico soprattutto dopo la fine della I guerra mondiale. Ottennero vasta risonanza Liolà, Pensaci Giacomino!, Così è (se vi pare)Sei personaggi in cerca d’autore, L’uomo dal fiore in bocca, Enrico IV e molte altre. La morte sopravviene nella Capitale, nel 1936.

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Il testo:

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La commedia è ispirata alla celebre vicenda giudiziaria Bruneri-Canella (conosciuta come il caso dello smemorato di Collegno): un avvenimento di cronaca realmente accaduto tre anni prima che aveva intrigato gli italiani tenendoli in sospeso sulla reale identità dell’uomo al quale i due nomi vennero attribuiti da opposti schieramenti, e che non trovò una convincente e definitiva soluzione. Nella pièce (che ricorda per certi versi le tematiche di doppia identità de «Il fu Mattia Pascal»), la problematica è trasferita sull’identità dell’Ignota, un personaggio femminile (il cui ruolo nelle intenzioni di Pirandello, che proprio a lei la dedicò, era destinato Marta Abba), contesa tra l’amante tedesco Cari Salter e Bruno Pieri che, invece, riconosce in lei Lucia, la moglie scomparsa. L’Ignota si rivela un’autentica femme fatale che conduce un’esistenza disinvolta e mondana: ospite di una famiglia berlinese, è l’amante del padre di famiglia, il signor Salter, e pare abbia anche un rapporto carnale con Mop, la figlia di lui. A un certo punto le si presenta però l’occasione di rifarsi completamente una vita nel suo paese di origine, l’Italia. Di rimarchevole il contrasto che Pirandello mette sapientemente in luce tra la vita metropolitana del primo dopoguerra berlinese, brillante, frenetica e peccaminosa, e l’arretratezza della provincia italiana schiava delle proprie secolari tradizioni.

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Lo spettacolo:

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credito fotografico: Laila Pozzo

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Ci sono due frasi emblematiche, pronunciate da Cia, o da colei che crede di essere tale o in subordine è disposta a trasformarsi in tale, che rappresentano, in pratica, una specie di sintesi suggestiva ed efficacissima del pensiero e del messaggio espresso da Pirandello. Non solo in questa pièce, ma nell’intera sua produzione letteraria e drammaturgica.

«Sono un’attrice e ogni volta mi trasformo nel personaggio che sono chiamata a interpretare» afferma (sostanzialmente) la prima e «È persino crudele paragonare tutte le esistenze che si trova a vivere un’attrice con quella unica e spesso opaca di ciascuno di noi» è l’altra.

Il problema, per chi porta in scena le opere di un simile gigante, avanti perlomeno mezzo secolo rispetto al pieno estrinsecarsi delle idee, delle teorie e della pratica della psicoanalisi, oltreché eccelso narratore, è trovare il modo di rispettare il testo originale riuscendo a esprimere, nel contempo, qualcosa di più attuale e originale.

La via scelta dall’ Invisibile Kollettivo è quella di destreggiarsi con sorprendente disinvoltura tra diverse chiavi di lettura avvalendosi di una scenografia essenziale ma di grande suggestione. A momenti di interpretazione tradizionale si alternano intervalli di metateatro portati all’esasperazione attraverso un sagace “utilizzo improprio” degli interpreti, sdoppiati (come nel caso di Cia) o addirittura trasformati in esseri slegati dall’identità sessuale tra attori e personaggi, per finire con enfatici spazi assegnati, in alcuni passaggi, a una recitazione enfaticamente e ironicamente di stampo classico. Quanto all’allestimento scenico, sono le luci e i colori a farla da padroni: al profondo rosso iniziale teso a ricordare, più ancora della tinta di sipario e arredi tipica dei teatri, quella del sangue che scorre nelle vene di tutti ma non per tutti nella stessa densità e pressione, succede il bianco abbagliante di una verità che nell’eccessiva luce della follia si nasconde, invece di rivelarsi, e il blu onirico e inquietante dei moti più profondi dell’animo umano.

Non ci sono regole da rispettare, in un allestimento come questo, a parte il più noto dettame di Anton Checov: «Se compare una pistola in una scena e poi, nel resto del libro, e nessuno la usa, è un elemento inutile. Se c’è una pistola, prima o poi deve sparare». E la pistola, in effetti spara, anche se non uccide. Dopo di che il Kollettivo procede fino alla fine (accompagnata dalla bellissima canzone di Mina intitolata appunto Sono come tu mi vuoi) in navigazione libera, senza rete, seguendo l’unica stella polare di una istintualità mai fine a se stessa, direi quasi -con una non piccola contraddizione in termini- una improvvisazione creativa accuratamente studiata a tavolino.

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Attenta la regia, perfetta la gestione dei tempi e degli spazi. Ottima la recitazione di tutti gli interpreti con un paio di assolute eccellenze che, trattenuto dal riferimento al Kollettivo, mi astengo, sia pure a fatica, dal menzionare.

Convinti, scroscianti e prolungati i meritati applausi che salutano il chiudersi del sipario.

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