Mi è capitato molto raramente di accingermi a recensire un’opera teatrale senza avere la minima idea di dove andrò a parare alla fine dell’articolo. Con questo voglio dire che Demoni, il dramma scritto da Fabrizio Sinisi, ispirandosi (molto) liberamente all’omonimo romanzo di Fëdor Dostoevskij è un’opera di particolare complessità, sia dal punto di vista dell’allestimento complessivo che da quello della fruizione da parte dello spettatore.
«Questo lavoro inizia nel 2021 -anno del centenario della nascita di Dostoevskij– a partire da due obiettivi diversi» spiega il drammaturgo residente del Centro Teatrale Bresciano nelle sue note di drammaturgia. «Da un lato, tornare a raccontare in teatro “uno dei quattro o cinque testi più grandi di tutta la storia occidentale” (secondo Camus); dall’altro, il bisogno di indagare i desideri, le pulsioni, i sogni e i terrori di una generazione più giovane, che nel teatro italiano spesso non trova -né tra gli artisti né tra gli spettatori- lo spazio e l’attenzione che meriterebbe».
Fin qui le parole di Fabrizio Sinisi.
Un programma senz’altro ambizioso che peraltro, come spesso accade quando si cerca di colpire due bersagli con un solo colpo (o catturare due piccioni con una sola fava) , rischia di attingerne uno in pieno (o quasi) e l’altro solo parzialmente, lasciando appena qualche scalfitture esterne quanto superficiali.
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E la prima considerazione che mi viene in mente dopo avere assistito allo spettacolo di ieri sera al Teatro Sociale, è che proprio in questa non certamente anelata eventualità si sia caduti con Demoni. Intendiamoci, lo spettacolo ha tutte, ma proprio tutte, le caratteristiche atte a potenziarne e a esaltarne il messaggio. Intanto è realizzato con una attenta regia abile a mettere in scena un’accorta e ampia recitazione corale, tale da risultare armonica nelle interpretazioni dei singoli personaggi e, nel contempo, a metterne adeguatamente in risalto le caratteristiche psicologiche e comportamentali.
La scenografia, cupa e oppressiva nei colori e negli spogli arredi, accompagnata da un efficacissimo utilizzo della telecamera che proietta sul grande schermo i particolari dei primi piani degli attori e di alcuni cruciali movimenti di scena, è senz’altro originale ed efficacissima. Mi viene in mente la lunga tavola alla quale, in una lunga sequenza, sono seduti gli appartenenti al collettivo ambientalista che sono al centro del dramma: uno straordinario richiamo alla iconografia di un’Ultima Cena che, alla fine, vedrà martiri sia il Maestro che gli apostoli.
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Identica positiva considerazione vale per le luci e il sonoro, in entrambi i casi di grande suggestione e mai disallineati dallo spirito della narrazione.
Impeccabile la recitazione di tutti i giovani interpreti, esaltata dai primi e primissimi piani di cui ho fatto cenno poche righe prima di queste. Ed è proprio questo l’anello che, esaurite le indispensabili e positivissime considerazioni sull’allestimento teatrale, collega le stesse alla disamina del testo.
La scrittura di Sinisi, infatti, la cui correttezza lessicale ed eleganza lessicale nessuno si può permettere di contestare, in questo caso, più che in altri, appare in più punti come un’esercitazione di stile persino esageratamente raffinata e compiaciuta di se stessa. Il che, non riuscendo a conferire piena naturalezza ai dialoghi espressi in palcoscenico, porta gli attori a enfatizzare la propria prestazione conferendo allo spettacolo, in più occasioni, l’eco di un pur sofisticato e formalmemte ineccepibile saggio di fine corso.
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Di nuovo la scrittura, allora. Stavolta intesa come intenzione, mezzo e fine di ciò che il drammaturgo ha confidato di essersi riproposto. Il riempimento di un contenitore in cui è messo insieme di tutto, dall’esecuzione di Aldo Moro a Vermicino, all’omicidio di Elisa Claps e ad altro ancora. Colte citazioni letterarie che disseminano la recita come eruzioni cutanee. Un Dostoevskij che sembra, a tratti, avere indossato la giacca di Luigi Pirandello, con i demoni che ragionano e si confrontano alla maniera dei Sei personaggi in cerca di autore o battibeccano tra loro e con il regista come gli attori protagonisti di Stasera si recita a soggetto. Un papello nel quale sono elencati (un po’ alla rinfusa, per la verità) i guasti del consumismo, del disastro ecologico, delle discriminazioni e delle esclusioni che avvelenano il passaggio di staffetta tra due generazioni che non solo non si amano, ma che non riescono nemmeno a sopportarsi.
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Un modo come un altro per arrivare all’atteso e in fondo desiderato olocausto finale.
Va tutto bene. Temi attuali, temi importanti, temi scottanti.
E Fëdor Michajlovič Dostoevskij? Mah, al calar del sipario si ha l’impressione che si sia perso per strada.
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GuittoMatto
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Le foto inserite a corredo di questo articolo sono state scattate da ph Luca Del Pia
Lavorare su un testo così complesso è difficilissimo, ma mi chiedo… Non è possibile usare testi teatrali esistenti o originali? Perché questa ricerca di un incontro (che diventa impietoso scontro) con un gigante come Fedora?