Martina Giannini e lo spettacolo nel DNA: di tutto e di più.

Ci sono parole che chissà quante bambine pronunciano con gli occhioni sgranati alla presenza dei genitori, dei nonni, degli zii e degli amici di famiglia riuniti nel salotto di casa per bere insieme un tè con le tazzine del servizio buono e i dolcetti fatti in casa:

«Da grande voglio fare l’attrice o la ballerina. Anzi, tutte e due!»

E giù sorrisi, ammiccamenti compiaciuti, un pizzico d’invidia per l’ingenua, meravigliosa e beata fantasia dell’infanzia.

Perché si sa, poi la vita ci porta altrove. Perché poi, nel novantanove per cento dei casi, una volta diventate grandi quelle stesse bambine, finiscono per fare le maestre, le commesse, la dottoresse, le impiegate o le dirigenti d’azienda, e quella del palcoscenico rimane, alla fine, l’equivalente dell’inevitabile sogno incompiuto di ogni infanzia che, per i maschietti, equivale all’astronauta, al pilota da corsa o al calciatore.

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Invece no. Invece Martina Giannini, evidentemente, ha sempre detto e fatto sul serio. E adesso sentiamone la conferma dalla sua stessa voce (si fa per dire, naturalmente).

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Olà, Martina! Dunque sei una todina!

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Tuderte (mi corregge con un sorriso). Sì, sono nata e abito proprio a Todi.

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Todi, la città di Jacopone, inserita a pieno titolo nell’area che diede origine e respiro al movimento francescano. Un grande poeta coevo e probabilmente amico di Dante Alighieri, autore di una Commedia davvero divina, se mi si consente il gioco di parole, e un santo che attraverso l’ideazione del presepe vivente e di un certo modo festoso e corale di manifestare la gioia di essere creatura di Dio, con il teatro sembrano avere molto a che fare. L’ho chiesto, in una recente intervista pubblicata su queste pagine alla ternana Elena Marrone, e domanda analoga pongo a Te: da dove nasce e come si alimenta la voglia di fare spettacolo che visibilmente fermenta in Umbria in questi ultimi anni? Vedo dalla tua biografia, tra l’altro, che hai dato anche corpo, voce e movimento alla maschera regionale della Commedia dell’Arte Rosalinda.

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Credo che nasca dal desiderio di comunicare, dal bisogno di creare una comunità. L’Umbria è fatta di tanti piccoli paesini scarsamente collegati fra loro, così gli spettacoli diventano un momento di incontro, aggregazione, scambio e condivisione. Le Maschere Umbre, per esempio, nascono per dare voce a un’Umbria meno turistica, per mantenere vive alcune tradizioni e tramandare cibi tipici, personaggi locali, pensieri e modi di dire del secolo appena passato.

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Hai cominciato a frequentare il palcoscenico alla tenera età di tredici anni e poi… non ne sei più venuta via. Vuoi spendere qualche parola su questo precoce quanto tenace e appassionato innamoramento?

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È iniziato tutto con il grande Mario Castellacci, che ricordo con enorme affetto. Mario aveva una casa a Todi e ha fatto di tutto per far nascere nella città l’amore per il teatro. Con me ha funzionato e da allora non ho più smesso di recitare. Ho seguito diversi seminari e laboratori, anche in lingua inglese, ma soprattutto ho avuto la fortuna di poter imparare direttamente da grandi maestri come Beppe Chierici e Carlo Boso. Mi sento affermare che il teatro occupa gran parte delle mie giornate; in media sono impegnata in sette / otto spettacoli diversi all’anno! Finché la memoria regge…

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Teatro ma non solo, a quanto pare. So che per una decina di anni ti sei espressa anche come dialoghista e adattatrice cinetelevisiva dal 2006 al 2018 e che ti sei dedicata con impegno ad acquisire competenze nella danza rinascimentale e barocca.

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Dodici anni, sì. È stato un bel periodo quello nel mondo del doppiaggio, ma poi per questioni di salute ho scelto di dedicarmi ad altro. La danza barocca invece è un amore recente, nato dell’incontro con Ilaria Sainato, che da due anni è la mia insegnante alla Scuola di Musica Antica di Venezia.

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Tre domande secche per concludere. La prima: che cosa rappresenta nel complesso della tua vita e nel tuo percorso di crescita la pratica del mondo dello spettacolo?

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Posso dire che è una parte di me, una costante nella mia vita. Mi ha sempre accompagnato e si è evoluta con me, a volte seguendo i miei cambiamenti, altre volte favorendoli.

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La seconda: in queste settimane sei impegnata nell’allestimento del dramma scritto da Patrizio Pacioni e Federico Ferrari per la regia di Salvo Buccafusca, la cui prima è in programma al Teatro Parioli di Roma il prossimo 18 marzo. Si tratta di un testo particolarmente impegnativo che, traendo spunto da un fatto di cronaca particolarmente crudo, richiede il massimo coinvolgimento emotivo da parte di tutti gli interpreti. In che modo lo stai affrontando?

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Dopo l’impatto iniziale, che emotivamente è stato molto forte, ho cercato di conoscere più a fondo la vicenda e le persone coinvolte. Devo ammettere che non è un testo semplice per me, ma gli altri interpreti sono un importantissimo punto di riferimento; Salvo Buccafusca poi ha la capacità di trasmetterti chiaramente la sua visione della scena.

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La terza e anche l’ultima di questo “interrogatorio” cui ti ho sottoposto: ci sono (già in cantiere o di prossimo arrivo) altri impegni e/o progetti artistici ai quali tieni particolarmente?

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La risposta naturalmente è sì. Ma per scaramanzia preferirei non parlarne. (e, per la seconda volta in questa intervista, ci regala un bellissimo sorriso)

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