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Per la rassegna «Teatro Aperto», serie di letture sceniche organizzata dal Centro Teatrale Bresciano, ieri sera, al Teatro Sancarlino, Elisabetta Pozzi ha letto il testo di Fabrizio Sinisi «Pietà».
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La trama:
È la storia di un incontro fatale e delle sue drammatiche conseguenze. Da un incontro occasionale con uno sconosciuto, neanche troppo coinvolgente, una giovane donna milanese guadagna un figlio e un abbandono. I primi anni trascorrono in un’apparente mancanza di problematiche derivanti dalla mancanza della figura paterna e in un’atmosfera di ingannevole tranquillità.
Con il dodicesimo compleanno del figlio Teodoro, un’improvvisa quanto inattesa esplosione di rabbia (probabile simbolo della devastante irruzione della tempesta ormonale adolescenziale) sconvolge gli schemi, dando inizio a un periodo conflituale caratterizzato dai tipici problemi dell’età: il profilo e la condotta a scuola, la frequentazione di cattive amicizie, la ricerca problematica di un’identità adulta.
E proprio quando sembra che, infine, l’abnegazione di uno spirito materno totalizzante, possa risolvere ogni problema, ecco che il caso, il destino, il fato, sconvolgono per sempre ogni certezza.
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L’Autore:
Scelgo le poche e significative parole con cui Elisabetta Pozzi: ha introdotto la serata, prima di cominciare il monologo:
«Riconosco in Fabrizio Sinisi, neo “Drammaturg” domestico scelto dal Centro Teatrale Bresciano per il prossimo triennio, innanzitutto il Poeta. Resistendo alla moda imperante di trasporre in palcoscenico come nella letteratura il linguaggio comune, Fabrizio, riconoscendo e facendo propria la misterica ritualità del Teatro, scrive con accenti lirici, riuscendo a condensare e a mettere in scena le sue nobili frequentazioni letterarie».
Ricordo che, pochi giorni fa, è andato in scena al teatro Santa Chiara «Shakespeare/Sonetti», versione italiana e adattamento teatrale di Valter Malosti e dello stesso Fabrizio Sinisi.
Per il resto, le parole di Elisabetta Pozzi sono talmente incisive che non reputo necessario aggiungere altro.
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Il testo e lo spettacolo:
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«Chi è cieco dalla nascita non sa cosa gli manca, eppure avverte nostalgia» è l’ammiccante premessa.
«A 24 anni l’unica preoccupazione di una donna è che se piove, le si rovina la piega dei capelli»è la giustificazione per un comportamento immaturo e per una scelta fatale.
Poi irrompe il futuro sotto le vesti di un bel giovane impegnato al confessionale, a chiedere poco convinto perdono per peccati commessi contro la purezza. Da un amplesso frettoloso e insoddisfacente, prende le mosse e germoglia la drammatica “final destination” di una vita. Anzi di due. Anzi di tre.
Tra le cose che più colpiscono, nella stilisticamente impeccabile scrittura drammaturgica di Fabrizio Sinisi, c’è un particolare che potrebbe sembrare secondario, ma non lo è affatto: il ripetuto quanto felice accostamento tra una descrizione minuziosa dei piccoli gesti e i pensieri più intimi, quelli del livello più interiore dell’anima, più prossimi alle pulsioni più istintive e profonde.
«Pietà» è un monologo dolente, in cui echeggia una Milano che non c’è più, un mondo retrò, a metà tra le canzoni di Tenco, i cantautori bretoni e l’amara e urticante ironia di Gaber, introiettati a posteriori dal giovane drammaturgo, in un’atmosfera sospesa di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.
«Pietà» è una autocritica al maschile, che parte dal concetto che «Una donna cerca qualcuno da, un uomo cerca qualcuna per».
«Pietà» è la dichiarazione disperata di chi ha realizzato che «Nulla è più tremendo di una vita in cui nulla succede. Dunque, qualsiasi errore, anche il peggiore, è preferibile rispetto al nulla».
«Pietà», recitato da una empatica, emozionante meravigliosa e immensa Elisabetta Pozzi, alla fine lasci un solo, grande dubbio: a chi è rivolta l’affranta e straniata narrazione? Al fato? All’uomo che, probabilmente, ancora non sa, e forse non saprà mai, come sarebbe potuta cambiare la storia della vita?
Di certo non al pubblico, che l’Autore condanna, con raffinata crudeltà, ad assistere, in un letto di spine e raffinatissime parole, in qualità di testimone mesto e impotente.
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GuittoMatto