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La trama:
Ritter, Dene, Voss venne scritta nel 1984 dal drammaturgo austriaco Thomas Bernhard e messa in scena nel corso del Festival di Salisburgo del 1986. Nella vicenda, in parte, ispirata alla figura del matematico e filosofo Ludwig Wittgenstein si narra dell’incontro, per un pranzo, tra tre fratelli: l’estremo tentativo di ricostruire un nucleo familiare, ma l’amore fraterno si è ormai pervertito da lungo tempo e tutto sfocia in un convulso scambio di feroci giudizi, rimproveri, sarcasmi e sentenze, concludendosi con il fallimento e il tradimento. Il titolo deriva dai cognomi dei tre attori che il regista Claus Peymann scelse per la prima: Ilse Ritter, Kirsten Dene e Gert Voss.
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L’autore:
Thomas Bernhard nasce a Herleen, in Olanda, il 9 febbraio 1931, da genitori austriaci. Trascorse una infanzia e un’adolescenza difficili, sia a causa delle gravi vicissitudini famigliari che degli orrori causati dalla dittatura nazista e dalla guerra. Ammalato di tubercolosi e ricoverato in sanatorio, incontra Hedwig Stavianicek (la compagna di trentasette anni più anziana, che l’accompagnerà fino alla morte e che egli definiva «la persona della vita»). Si dedica alla prima composizione di racconti e articoli giornalistici per il “Demokratisches Volksblatt” e il “Salzburger Volksblatt” di Salisburgo. Sotto la copertura degli pseudonimi Thomas Fabjan e Niklas van Herleen appaiono nel 1950 i primi racconti. Studia come attore al Mozarteum di Salisburgo, dal 1955 al 1957. Per quanto concerne il contenuto della produzione letteraria, il racconto del 1956 Der Schweinehüter segna l’abbandono definitivo del primo idillismo, inaugurando in certo modo una nuova stagione artistica. È infatti per la prosa lunga, romanzi e poemi, la nuova attenzione di Bernhard, benché appaiano in questi anni poesie liriche singole e raccolte. Subita per breve tempo l’influenza del rapporto di conoscenza con il compositore Gerhard Lampersberg e della moglie Maja, promotori di un circolo artistico storicamente noto come Thonhof, decide infine di interrompere il rapporto e compie alcuni viaggi all’estero. Nel 1963 appare il romanzo Gelo (Frost) che venne acclamato dalla critica – omonimo a una raccolta di 140 poesie la cui pubblicazione fu invece rifiutata nel 1961 dall’editore Otto Müller. Nel 1964, gli fu conferito il Premio Julius Campe e uscirà il lavoro più stimato dallo stesso Bernhard: Amras (1964). In un’intervista al «Die Presse» del 1984, l’autore definirà Amras il «libro prediletto». A riprova della sua predilezione per Amras, Bernhard citerà il titolo di questa opera in Estinzione. Del 1967 è Perturbamento (Verstörung), mentre nuove pubblicazioni di poesia accompagnano la produzione narrativa. L’apparizione di Una festa per Boris (Ein Fest für Boris, 1970), prima opera teatrale di Bernhard, inaugura ancora una svolta nel percorso artistico dell’autore ormai in modo crescente al centro di aspre o entusiastiche critiche nel dibattito culturale nazionale. Muore il 12 febbraio del 1989, dopo aver dato disposizioni affinché non fosse pubblicato nulla del materiale rimasto inedito e che i suoi lavori non fossero più distribuiti, né rappresentati in Austria. La sua casa è attualmente un museo.
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photo©MasiarPasquali
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Lo spettacolo:
Premetto che non si tratta di una pièce “facile”. Quello di «Ritter, Dene, Voss» è un testo complesso, nel quale nessuna parola è scritta a caso. È un’escursione in una follia che sembra essere quella di un singolo e che invece è nata ed è prolificata come una pianta infestante in una intera famiglia. La stessa follia che, più o meno mimetizzata, circola da sempre e più che mai nel mondo e nella società occidentale in particolare.
Una complessità che la regista Elena Sbardella e i tre interpreti di altissimo livello e in straordinaria forma hanno dimostrato, nella prima bresciana conclusa poco fa al Teatro Sociale, di saper gestire nel migliore dei modi. Così la regista ha optato per la suddivisione della narrazione scenica su piani diversi e sovrapposti di irreale e allucinata realtà. Ha scelto, pur in presenza di un atto unico, di assecondare senza riserve la struttura che vede Ludwig nella prima parte narrato e nella seconda narrante.
Così Gianluca Ferrato dà voce e movenze da diabolico candido al fratello , insidioso come quanto solo un ingenuo può riuscire a dimostrarsi, apparendo, non certo a caso, vestito di un bianco abbagliante. Un folle savio, che nell’uscire e rientrare in manicomio ha trovato un rassicurante equilibrio. Così Ludovica Modugno e Franca Penone dipingono il ritratto spiazzante di due sorelle che fanno le attrici, facce diverse della stessa moneta, al recto il talento e al verso l’improvvisazione di una sprovveduta e miracolata figlia d’arte. Innocenti perverse, mosse da impulsi incestuosi, l’una con masticato rimorso, l’altra con malcelato compiacimento.
Suggestive le scene, capaci di ricostruire in palcoscenico un interno di ventesimo secolo con fedeltà volutamente esasperata. Eccellenti i suoni, dagli oscuri rumori che segnano l’avvio agli stacchi che sottolineano ed evidenziano i momenti più importanti della rappresentazione, alla costante musica di sottofondo, leggera come la sottile pellicola che separa la sanità mentale dall’insanità. Straordinaria la gestione delle luci che scandiscono i passaggi topici: il buio minaccioso svelato dall’alzarsi del sipario, la luce del sole che realmente sembra entrare dalla finestra della sala da pranzo, un imbrunire livido, imbronciato di nubi che segna le incertezze di un finale senza speranze, dopo che si è scatenata, seppure per un solo attimo, la furia iconoclasta che si annida e fermenta in Ludwig.
Rimangono alcune frasi bellissime, da mettere da parte e ricordare a lungo. Dal fratello considerazioni su quell’inferno in cui può trasformarsi una famiglia: «L’unica cosa che mi lega alle mie sorelle è l’impossibilità di capirci.» – «Ho sempre odiato mio padre e neanche la sua morte ha placato il mio risentimento nei suoi confronti. E intanto la mamma annegava i miei crucci nella minestra.» – Dalle sorelle l’indolenza e l’alterigia che sono espressioni tangibili di una classe borghese in via di progressiva decadenza «La meschinità che viene dal basso è la più infame» – «Io non volevo fare l’attrice, volevo solo stare in mezzo alla gente.»
Rimane la curiosità di sapere (ma non lo sapremo mai, temo) quanto difficile sia stato e quanto lo sarà per gli attori, a fine spettacolo, spogliarsi degli abiti imposti dal problematico Thomas Bernhard, tra gioco di teatro nel teatro e problematica filosofia («La filosofia non è altro che matematica estrema» afferma Ludwig), per tornare a indossare i propri.
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