Si è spenta alla Poliambulanza di Brescia il soprano Daniela Dessì, a seguito di “una malattia breve, terribile e incomprensibile“, come la definisce il tenore Fabio Armiliato, compagno della cantante da più di quindici anni.
L’artista, che risiedeva nel bresciano, ed è stata considerata una delle più grandi interpreti contemporanee delle eroine verdiane e pucciniane, ha collaborato con i più grandi teatri del mondo, come la Scala di Milano, il Metropolitan di New York, e la Deutsche Oper di Berlino.
Dopo il debutto avvenuto a Genova con La serva padrona di Pergolesi, nel corso della sua intensa carriera Daniela Dessì (diplomata in canto e pianoforte al Conservatorio Arrigo Boito di Parma, e specializzata poi in canto da camera presso l’Accademia Chigiana di Siena) ha messo insieme un ragguardevole repertorio composto di oltre settanta titoli. Tra i tanti, grandi direttori d’orchestra che hanno incrociato la sua carriera, mi limito a citare nomi come Riccardo Muti, Carlos Kleiber, Claudio Abbado, James Levine, Lorin Maazel, e Zubin Mehta, cui si aggiungono registi del calibro di Zeffirelli, Ronconi, Scola e Strehler.
Ho intervistato in proposito Elena Bonometti, membro del CDA del Centro Teatrale Bresciano TRIC, ex vicepresidente (duplice mandato su nomina ministeriale) del Conservatorio di musica “Luca Marenzio”, docente di ruolo di psicologia presso IISS “Primo Levi” di Sarezzo, nonché appassionata d’opera sin dalla più tenera età.
Daniela Dessì e Brescia
È nata a Genova da genitori sardi, ma è cresciuta a Brescia seguendo il padre custode di fabbrica. Raccontano che, quando arrivava il momento della pausa pranzo o della fine turno, lei, che era ancora una bambina, andava in competizione con la sirena che scandiva i tempi di lavoro.
Quando l’ hai conosciuta?
Frequentava da studentessa il conservatorio allora intitolato a Venturi, nella classe assegnata a Carla Castellani. Essendosi già diffusa in città la notizia della sua bravura e dell’estrema duttilità della sua voce, cominciarono a chiamarla sempre più frequentemente perché partecipasse come solista ai vari cori amatoriali di Brescia. Fu così che finì a cantare anche nel coro di padre Salvetti che è stato anche il mio.
Vuoi dire che hai avuto occasione di cantare con lei?
Purtroppo no, io entrai più tardi. In realtà il nostro primo incontro è avvenuto all’inizio degli anni 2000, quando ero vicepresidente del conservatorio Marenzio (ex Venturi) diretto da Perotti: la chiamammo per un master di canto.
E lei accettò?
Immediatamente, e fu subito un boom di iscrizioni che rese necessaria una severa selezione che Daniela s’incaricò di fare di persona. Io partecipai alle lezioni come uditrice, e fu una bellissima esperienza, di cui conservo ancora la pergamena dell’attestato. Per tre giorni lavorò da mattina a sera in concentrazione assoluta, elargendo ai suoi allievi consigli e ammaestramenti sia di interpretazione artistica che di natura pratica, primo tra tutti il corretto utilizzo del diaframma.
Ti viene in mente qualche episodio particolare di quella esperienza?
Ricordo che a un certo punto salì sul palco per redarguire un bellissimo ragazzo che cantava da tenore:
“Cosa sono queste gambe divaricate?” lo redarguì, con grande energia.
Una indicazione in cui ravvisai un fermo invito a mettere da parte, nella pratica della lirica, ogni atteggiamento esibizionista e gigione, privilegiando invece la cura di un’interpretazione doverosamente filtrata da buon gusto e senso della misura. Oltre che essere meticolosa nella preparazione e perfetta nell’esecuzione, nonché dotata di una grandissima voce da madre natura, Daniela Dessì era capace di mettere tutto questo al servizio della interpretazione dei personaggi che era chiamata a rivestire. Aveva inoltre una capacità didattica incredibile, capace di migliorare i suoi allievi in pochissimo tempo. Inutile dire che il saggio finale che ebbi l’onore di presentare, si risolse in uno straordinario successo.
In cosa ti ha arricchito la sua frequentazione?
Mi ha insegnato quanto siano importanti la concentrazione e il costume mentale di tendere sempre e comunque al miglioramento. Accettando al tempo stesso, però, i propri limiti e cercando di trasformare in virtù anche i difetti. Sotto il profilo didattico, inoltre, ho acquisito e introiettato (anche) attraverso lei, due concetti basilari. Il primo è la necessità di instillare nei giovani la necessità di un approccio umile da parte dell’artista nei confronti della pagina dell’autore. Il secondo di esortare i ragazzi a non essere gigioni e a non desiderare per sé l’impossibile. “Ti viene stirato il re bemolle? Allora scegli d’interpretare opere che abbiano solo un do” diceva Daniela. E come potrei non essere d’accordo?
Una grande donna, allora.
Una donna meravigliosa: all’esterno poteva apparire come una grande diva, ma alla base c’era una serissima e indefessa lavoratrice. Già soprano strapagato, chiese al conservatorio, come compenso, una cifra irrisoria, sia per riconoscenza che per amore dell’insegnamento che vedeva come una meta da raggiungere una volta che fosse scesa dal palcoscenico, alla fine di una luminosa carriera artistica consumata sotto al luce dei riflettori; un traguardo che, purtroppo, una morte precoce non le ha dato la possibilità di raggiungere.
Che cosa le diresti, se potessi ancora parlare con Lei?
Solo “Grazie di tutto, Daniela, maestra di Arte e di Vita”
.
E qui Elena si ferma, vinta dalla commozione.
Bonera.2