Da San Carlino a Sant’Afra, i Guardiani sono sempre da vedere

Ad Agra, nell’India settentrionale, dopo sedici anni di lavoro il Taj Mahal, una delle meraviglie del mondo, è stato finalmente ultimato. Nella notte del 1648 che precede lo svelamento pubblico di questa superba e unica opera architettonica , i soldati Humayun e Babur montano la guardia al monumento.

Sono persone completamente diverse, i due, da sempre amici e complici: tanto estroverso, fantasioso, ciarliero e insofferente alla disciplina militare è Babur, tanto è taciturno e inquadrato Humayun.

Ma le cose stanno proprio così?

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Perché, all’improvviso, uno sviluppo imprevisto e imprevedibile della vicenda li mette drasticamente alla prova e, inevitabilmente, a confronto: per evitare che possa essere edificato un capolavoro come il Taj Mahal (mausoleo dedicato alla memoria della defunta amatissima moglie Arjumand Banu Begum), l’imperatore Mogul Shihābuddīn Moḥammed Shāh Jahān decide che non solo al geniale architetto Ustad Ahmad Lahauri che ha ideato l’opera e ne ha diretto i lavori di costruzione, ma anche ai ventimila operai che hanno lavorato nel grande cantiere, siano mozzate le mani.

E di questa immonda macelleria, guarda un po’, sono incaricati proprio Babur e Humayun: il primo mozza, il secondo cauterizza gli arti troncati, in un’orgia di violenza gratuita e di sangue che finisce inesorabilmente per toccare le menti dei due giovani soldati e gli equilibri esistenti tra loro, fino al più tragico dei finali.

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 «Io ho ucciso la bellezza!» è il grido disperato e disperante di Babur. E, inevitabilmente, in modo particolare in questi tristi giorni di guerra, viene da chiedersi: in quanti sono, in quanti siamo, in questo stesso momento, a uccidere la bellezza?

E quanto può essere accettabile, o solo ascoltabile, la giustificazione del massacro avanzata dal rigido Humayun: «Tagliare le mani significa mantenere la pace»?

Insomma, «Guardie al Taj» è un testo suggestivo e potente come pochi, quello di Rajiv Joseph, messo in scena in modo magistrale da Elio Capitani e recitato da due attori (Enzo Curcurù e Alessandro Lussiana) ispirati e in autentico stato di grazia.

Uno spettacolo che ha meritato pienamente l’intenso e lunghissimo applauso tributato dal pubblico che gremiva il Teatro Sant’Afra rimesso a nuovo dall’intervento del CTB.

Lo conobbi e lo apprezzai (e lo votai con assoluta convinzione) nel corso della rassegna di letture sceniche Teatro Aperto, ideata e diretta da Elisabetta Pozzi, della stagione 2018/2019. L’ho voluto fortemente rivedere in palcoscenico, arricchito dall’azzeccata scenografia… e mi ha coinvolto e appssionato ancora di più.

Provare per credere.

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