Lui è uno di quelli che, durante le prove, non si limitano a recitare. Sempre pronto a spendere una parola per “aggiustare” questa o quella battuta in un dialogo che continua a incepparsi , trovare una soluzione per un passaggio scenico, correggere quel problema con le luci, o con l’acustica…
Insomma, senza ombra di dubbio, Andrea Zanacchi è il classico “uomo in più” che ciascun regista vorrebbe avere nel cast di uno spettacolo.
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Non è soltanto questo, naturalmente. I suoi interessi spaziano su ogni tipologia di genere teatrale, per allargarsi anche a forme di rappresentazioni artistico-narrativo diffuse su vari tipi di media. E, soprattutto, è estesa e profonda la sua conoscenza tecnica e artistica e la sua versatilità nell’interpretazione di ogni tipo di personaggio.
Imparate a conoscerlo meglio attraverso l’intervista alla quale ha accettato di sottoporsi.
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Andrea, ti sei diplomato presso la scuola di recitazione Il Cantiere Teatrale di Roma. A mio avviso mai nome di un’accademia fu mai più centrato: in effetti, in questo campo specifico più ancora che in altri, il giovane allievo (o la giovane allieva) che s’iscrive ai corsi che lo aiuteranno a diventare attore, perfezionando anche le attitudini relative a musica, canto e danza, è un autentico cantiere sul quale i docenti si trovano a lavorare con passione, pazienza e incisività, Puoi dire che differenza c’è tra l’Andrea che cominciò a frequentare quella scuola e l’Andrea che. ne uscì alla fine dei corsi?
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Sicuramente l’Andrea di oggi è più consapevole mentre l’Andrea degli inizi non aveva ancora coscienza di cosa fosse realmente il teatro. Una cosa che devo alla mia scuola è avermi instillato l’amore viscerale per questo mestiere. La professione è arrivata dopo, con le prime scritture. La cosa bella di questo mestiere è che si apprende facendolo. Forse invidio un po’ l’Andrea degli inizi, perché avevo quella ingenuità e sfrontatezza nell’affrontare un testo che oggi ha lasciato spazio a più domande, paturnie attoriali. La recitazione deve essere sempre un volo leggero fatto di pochi pensieri e molta azione. Però oggi la materia diciamo la governo molto meglio. Ahahah.
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Nonostante ti si possa considerare (e che appari nelle tue interpretazioni) ancora un giovane attore, sono trascorsi già circa venti anni dal tuo debutto in palcoscenico con Astaroth scene di un laboratorio di Stefano Benni. Da quel giorno in poi, ti sei rivelato un lavoratore instancabile, con circa una trentina di interpretazioni complessive che abbracciano praticamente tutto lo spettro dello spettacolo di prosa, dal brillante al tragico, passando per il centro di gravità permanente della drammaturgia mondiale di tutti i tempi, William Shakespeare. E parliamo soltanto di teatro, per il momento. Quanto è stimolante e quanto è faticoso, passare così velocemente da un personaggio a un altro, da un genere all’altro, da un regista e da nuovi compagni di recitazione ad altri?
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Io credo che un attore sia un catalizzatore di emozione e di conseguenza un tramite. Detto ciò un buon attore, deve essere in grado di accogliere ogni tipo di segnale, elaborarlo per poi tradurlo al pubblico. Questo per dire che non si deve mai esser rigidi sulle proprie posizioni, opinioni riguardo un personaggio o una singola battuta, bisogna sempre essere disposti a lasciarsi guidare, cercando il giusto equilibrio tra il proprio lavoro creativo e quello del regista e dell’autore del testo.
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C’è tra tutti i personaggi di cui hai avuto occasione e modo di indossare la maschera che, più degli altri, sia rimasto impresso nella tua memoria?
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Sono legato più che ai personaggi a due spettacoli: Tutto a suo nome scritto e diretto da una bravissima attrice e regista Alessandra Schiavoni e Con il naso in su. Questo legame è dovuto non alle storie ma all’effetto che hanno avuto su di me. Questi due personaggi hanno contribuito in modo drastico alla mia crescita professionale. In alcuni casi anche con violenza mi hanno obbligato ad abbandonare ogni certezza. Mi ci sono perso per poi ritrovarmi.
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Riallacciandomi alla domanda precedente, vorrei adesso soffermarmi un po’ sulla tua eclitticità trasversale, intesa come attitudine a percorrere ed esplorare altre forme di spettacolo, prime tra tutte la televisione e il cinema. Come affronti questo ennesimo cambiamento, tra l’eterna precarietà dell’esibizione in diretta, al cospetto di un pubblico che può applaudire, certo, ma anche fischiare, qualora le cose dovessero andare un po’ peggio, e la necessità di curare con maniacale precisione la realizzazione di un supporto filmato destinato in quanto tale a rimanere immutabile nel tempo?
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Sono due mezzi diversi e complessi allo stesso tempo. Molto spesso si incorre nell’errore di paragonare il cinema con il teatro, niente di più sbagliato. Sono entrambi figli della stessa madre, la narrazione ma hanno preso due strade differenti e come è giusto che sia, hanno caratteristiche e difficoltà differenti. Per quanto riguarda me, affronto entrambi i linguaggi con divertimento. Non penso al dopo, cerco sempre di vivere il momento: il qui ed ora.
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La prima volta che ti ho visto all’opera (rimanendone favorevolissimamente impressionato) è stato in occasione della replica romana al Teatro Parioli di Una come me, commedia scritta da Mauro Graiani per la regia di Francesco Branchetti. Insieme a te Matilde Brandi e Salvo Buccafusca. Mi aspetto da te un’esauriente spiegazione di quali siano le ragioni e i segreti di un successo così importante, con decine di repliche in tutta Italia (al momento sono quasi quaranta) e la raccolta di un generale consenso sia in termini di pubblico che di critica.
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Sarebbe bello avere una formula magica. Se esistesse la gran parte dei produttori in circolazione farebbe carte false per accaparrarsene un pezzettino. In realtà credo che sia un bel mix di ingredienti, un testo ben scritto, un cast adatto e capace, una buona direzione. Ma alla fine l’ingrediente segreto, nel caso specifico è la sintonia che si riesce a creare in scena. Quella non si spiega, è pura magia.
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Mi fermo al Teatro Parioli, uno dei mitici siti dello spettacolo italiano, non solo della prosa. Il prossimo 18 marzo andrà in scena il dramma L’Erborista, scritto da Patrizio Pacioni e Federico Ferrari per la co-produzione ENFI Teatro / Le Ombre di Platone ETS e la regia di Salvo Buccafusca, di cui tu sarai un’importante protagonista. Come e con che spirito ti sei avvicinato a un testo così impegnativo, nel quale, attraverso la libera elaborazione ispirata a tragici fatti realmente accaduti, si affronta lo spinoso problema dell’azione di sette più o meno segrete nei confronti dei soggetti più deboli ed esposti.
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Prima di congedarci, ho quasi paura, considerata quanto risulta ricca e alacre la tua attività / produzione artistica, a chiederti che cosa riserva a noi spettatori la tua progettualità futura, nell’immediato e nel medio termine. Dobbiamo metterci comodi?
Temo che questa domanda rimarrà senza risposta. Adesso come adesso non so dire: certamente ho cose in vista, ma nulla di certo. Lascio che sia.
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