L’altro ieri sera, martedì 21 ottobre, al Teatro Sociale è andata in scena la “prima” bresciana della commedia di Carlo Goldoni «Sior Todaro Brontolòn» scritta da Carlo Goldoni nel 1761 e presentata al Teatro San Luca di Venezia l’anno successivo.
Una produzione firmata Centro Teatrale Bresciano per la drammaturgia di Piermario Vescovo, la regia di Paolo Valerio e l’interpretazione di Franco Branciaroli.
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L’Autore:
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Carlo Goldoni, nato a Venezia nel 1707 e morto a Parigi nel 1793, è considerato il padre della commedia moderna, in particolare quella italiana. italiana. Dopo aver studiato giurisprudenza e intrapreso la professione di avvocato, si dedicò completamente alla scrittura teatrale, avviando una profonda trasformazione della stessa come intesa sino a quel momento (la tradizionale Commedia dell’Arte) da attuarsi mediante l’eliminazione del “canovaccio” a favore dell’adozione di copioni scritti completamente in ogni loro parte.
Tra le sue opere più celebri, solo per citarne alcune, ci sono commedie come “La locandiera“, “Il servitore di due padroni“, “I rusteghi“, “La bottega del caffè” e “La trilogia della villeggiatura“.
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L’opera:
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Un ritratto di Padron Todero (guai a chi non lo chiama con questo appellativo) potrebbe essere appeso, a pieno titolo, insieme a quelli dei più noti personaggi negativi, odiosi e soprattutto antipatici della prosa italiana e internazionale.
Pare che lo stesso Goldoni si dicesse stupito, lui per primo, del successo riscosso da un vilain del genere presso il pubblico di quei tempi (e presso quello delle generazioni che sono seguite fino ai nostri giorni, mi permetto di aggiungere).
Naturale discendente dei Rusteghi, Todero Brontolòn appare però del tutto privo di qualsiasi intonazione bonaria dei quattro burberi veneziani protagonisti dell’omonima commedia, appare più avaro di Arpagone oltre che spietato nei rapporti con la servitù e con i suoi stessi parenti, permaloso all’eccesso e diffidente verso chiunque abbia la (s)ventura di entrare in rapporto con lui.
Eppure, per la maestria con la quale è stato descritto e animato da Goldoni, per lo spessore del personaggio, in poche parole per la sua personalità, seppure in negativo, l’arcigno vecchio ha ispirato l’interpretazione di grandi attori del teatro nazionale come Gastone Moschin, Giulio Bosetti e, soprattutto, l’indimenticato e indimenticabile Cesco Baseggio.
E, naturalmente, ora anche quella di Franco Branciaroli, uno degli ultimi grandi esponenti della stirpe nobile della storia della moderna prosa italiana che torna al classico che più classico non si può dopo avere vestito i panni di Shylock, lo spietato Mercante di Venezia.
La storia non brilla certo per originalità, com’è giusto che sia, visto che, all’epoca, il pubblico chiedeva proprio questo: situazioni ripetitive e dunque rassicuranti sulle quali ridere raffrontando la finzione con la realtà.
Sior Todero, restio a finanziare la dote matrimoniale necessaria per combinare un matrimonio più importante, trascurando le aspirazioni e i sentimenti della nipote Zanetta, le impone di convolare a nozze con il figlio del fattore. Al suo progetto, però, si oppone la nuora Marcolina, che trova un valido sostegno nella vedova Fortunata, una simpatica signora che, probabilmente, arrotonda le proprie entrate esercitando il mestiere più o meno palese di sensale. Quest’alleanza, tutta al femminile, riuscirà alla fine a far sì che i piani di Todero vadano in fumo e che l’amore vero, quello che Zanetta nutre (assolutamente ricambiata) nei confronti di un giovane dabbene da romanzo rosa, alla fine trionfi.
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Lo spettacolo:
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Prima di ogni altra considerazione, c’è la lieta consapevolezza che in questa occasione,lo spirito del testo originale è stato pienamente rispettato, consentendo una opportuna pausa in quell’insano progetto di “riscrittura a ogni costo” che sembra aver posseduto molti tra i commediografi e drammaturghi contemporanei.
Sinceramente non se ne può più di vedere Romeo e Giulietta esponenti di due clan rivali che a suon di colpi di pistola e mitragliatrice si contendono lo smercio della droga nel Bronx o a Caviano. Non se e può più, parimenti di interpretazioni narrative strane, con inflazione di metateatro seminato qua e là ad capocchiam, dei guerrieri dell’Aida bardati da commandos dei corpi speciali di questo o quell’esercito, e via discorrendo con simili gratuite e biasimevoli eccentricità. Nossignori: poso garantirvi che di questa grave colpa, Piermario Vescovo, Paolo Valerio e Franco Branciaroli si sono guardati bene dal macchiarsi.
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Il loro Todero Brontolòn, pur trattato e rappresentato in chiave narrativa adeguatamente aggiornata, è una pièce farcita della stessa ironia che faceva ridere gli antenati settecenteschi, con una scenografia ardita e fantasiosa, con i colori pastello dei vestiti indossati dai suoi personaggi che ne ravvivano il palcoscenico, con il brio ispirato non solo del protagonista, ma di tutti gli attori e le attrici in scena con lui.
E, per finire, con una regia attenta e priva di qualsivoglia sbavatura.
È, in estrema sintesi e come tangibilmente confermato dall’autentica ovazione che ha accompagnato il calare del sipario nella prima da tutto esaurito, uno spettacolo riuscitissimo sia nell’ideazione che nella materiale realizzazione, che, ove ce ne sia la possibilità, del quale sarebbe erroneo mancare il genuino e allegro godimento.
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GuittoMatto
