Il sipario si apre su un elegante loft arredato con grandi bacheche di vetro e una giovane coppia impegnata in un ballo moderno che perpetua l’antichissimo rito dell’innamoramento e del desiderio.
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Come dichiarare fin dall’inizio agli spettatori che affollano il Teatro Sociale di Brescia che, pur trattandosi di un grande classico della commedia mondiale di ogni tempo, oserei dire uno dei testi sacri della drammaturgia brillante del diciassettesimo secolo, non stanno per assistere a una replica ordinaria.
L’opera in questione s’intitola «L’Avaro», scritto da Jean Baptiste Poquelin, meglio conosciuto con il nome di Molière e messo in scena per la prima volta il 9 settembre 1668 dalla compagnia “Troupe du Roy” al Teatro di Palais-Royal di (naturalmente!) Parigi.
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Per non incorrere in equivoci, però, mi preme precisare che, in realtà, se è questo che temono molti tra coloro che leggono questa recensione e che ha paventato nei primi minuti dello spettacolo anche il sottoscritto, non si tratta stavolta dell’ennesima melensa rimasticazione in chiave moderna (con tanto di rumoroso aspirapolvere elettrico e cellulare completo di selfie) di un capolavoro che nella decontestualizzazione risulta assai spesso sostanzialmente snaturato.
No, al contrario, la lettura del regista Luigi Saravo, per quanto fantasiosamente attualizzata, risulta assolutamente rispettosa della scrittura originale, conservandone i ritmi e, soprattutto, lo spirito originale.
Alla produzione dello spettacolo hanno collaborato (insieme al C.T.B.) il Teatro Nazionale di Genova, Artisti Associati di Gorizia e il Teatro Stabile di Bolzano.
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La trama:
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La storia credo che la conoscano tutti: Arpagone (ricco taccagno che richiama molto da vicino il collega Euclione protagonista della Aulularia scritta da Tito Maccio Plauto intorno al 190 a.C.) cerca di combinare un matrimonio economicamente soddisfacente per sua figlia Elisa, imponendole per sposo il ricco ma molto più anziano Anselmo, disposto a impalmare la ragazza anche senza dote. Peccato che Elisa sia innamorata di Valerio che, però, ha il grave difetto di essere uno squattrinato. La situazione si complica ulteriormente allorché Arpagone mette gli occhi sulla giovane, bella e (anche lei) povera Marianna la quale, a sua volta, è innamorata del figlio di lui, Cleante. Di qui parte una girandola di spassosi equivoci che porterà, dopo numerose e considerevoli traversie, all’inevitabilmente positivo scioglimento finale.
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Lo spettacolo:
Fortunatamente capita a volte che, a seguito di arcane congiunzioni astrali, venga messa in scena una pièce in cui tutto, ma proprio tutto, funzioni alla perfezione. È appunto il caso di questa interpretazione de L’Avaro: per quanto mi sforzi a farlo (ma non intendo farlo più di tanto) davvero non riesco a trovare un punto debole dello spettacolo. Della regia fantasiosa, armonica e attenta a ogni sfumatura, capace di coniugare nel modo migliore il passato con il presente, si è già fatto ampio cenno in apertura. Così come della scenografia, funzionale, evocativa e a tratti geniale (Lorenzo Russo Rainaldi -responsabile anche dei costumi- e lo stesso Luigi Saravo). Dell’utilizzo delle luci curate da Aldo Mantovani, il cui sapiente utilizzo letteralmente veste il palcoscenico, accompagnando e valorizzando i passaggi più significativi e le interpreti, dell’originalità delle musiche di Paolo Silvestri che, ispirandosi ironicamente a inni d’ispirazione religiosa, conducono per mano gli spettatori a un coinvolgimento ancora più festoso , azioni singole e corali degli interpreti… dico e scrivo ora.
Lasciandomi per ultima, ma non certo ultima in ordine d’importanza, la recitazione degli attori che non può che definirsi eccellente e ispirata, a partire dal tragicomico Arpagone di Ugo Dighero di cui interpreta magistralmente la ruvidezza e la meschineria morale, ma anche la tragicomica regressione allo stato scimmiesco pre-umano allorché lo annichilisce il dolore insopportabile di vedersi privato del reale amore della propria vita -il denaro!-autentico provato quando gli viene portata via la ragione della propria vita (il denaro!) che nel suo caso però equivale però al più puro e intenso degli amori.
Non da meno risultano impeccabili le prestazioni artistiche di tutti gli altri attori ai quali, con ennesimo coup de theatre nel finale si unisce a sorpresa anche il regista Luigi Saravo, indossando in modo del tutto convincente i panni del commissario chiamato a indagare sulla sparizione del tesoro del vecchio spilorcio.
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Tutto qui? È già molto, lo so, ma prima del congedo voglio tornare un attimo sul testo. La comicità di Molière, mai fine a se stessa, come detto costituì a sua volta, a distanza di un gran numero di secoli, una rigenerante rivisitazione di quella plautiana. Il messaggio principale, a mio modestissimo avviso, è che il bene e il male sono due ingredienti che, una volta sciolti nel bicchiere d’acqua della vita, diventano quasi totalmente indistinguibili e indivisibili: non c’è solo becera avidità nell’impresentabile Arpagone, ma anche sentimenti autentici, seppure indirizzati alla pecunia invece che al cuore di un’amata; così come nei personaggi positivi non è assolutamente tutto oro ciò che brilla, mescolandosi il più delle volte nell’anima di ciascuno di noi aurei monili e paccottiglia made in China.
Nella versione di cui ci stiamo occupando, infine, compare anche un riferimento che, nel bene e nel male (forse più nel male che nel bene), occhieggia sarcasticamente un certo esasperato giovanilismo tipico di questo terzo millennio che olezza un po’ di razzismo generazionale con uno stile assertivo tipico dell’epoca in cui L’Avaro fu ideato e scritto. Cito, in proposito, due significativi passaggi (a mio avviso) volutamente esagerati: «L’amore è come il futuro: appartiene ai giovani» e «Se una ragazza deve scegliere con chi maritarsi, prenderà sempre il figlio e lascerà da parte il padre». Il che, obbiettivamente parlando, in una realtà contemporanea in cui la ricchezza (e soprattutto quell’eccezionale afrodisiaco costituito dal Potere) sono concentrati nelle mani dei più maturi, non sempre corrisponde alla realtà.
Anzi.
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E buon Avaro a tutti.
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