Goodmorning Brescia (23) – Nozze di Cana all’africana (e alla bresciana)

Sia ben chiaro quanto possa essere lontana da me ogni tentazione d’irriverenza.

Premesso questo, effettivamente, però…

Ecco, pensando ai fatti che, una trentina di anni or sono, si svolsero a Nipepe, in Mozambico, allorché una sanguinosa disputa (quasi una guerra) tra fazioni rivali costrinse poco meno di trecento persone, per la maggior parte donne e bambini, ad asserragliarsi all’interno di una minuscola chiesetta, non posso proprio fare a meno di percepire certi collegamenti logici, oltre che mistici. Accadde infatti che, dopo qualche giorno, venne a mancare l’acqua necessaria a dissetare gli assediati; il sacerdote, per fare fronte in qualche modo alla terribile emergenza, permise che si utilizzasse alla bisogna la poca acqua benedetta rimasta nel fonte battesimale. È a questo punto, che accade l’imprevedibile: le donne, inginocchiate ai piedi dell’altare, invocano il soccorso di suor Irene Stefani e, miracolosamente, l’acqua contenuta nel fonte battesimale, invece di consumarsi rapidamente e inesorabilmente, comincia a rigenerarsi, consentendo che per ben tre giorni i rifugiati nella chiesa si possano dissetare.

Al banchetto di nozze di Cana l’acqua mutata in vino (e che vino!), a Nipepe l’acqua salvifica che scaturisce dalla cavità di un tronco adattato alla bisogna.

È appunto a  Nyaatha (nella lingua locale Madre Misericordia) che Costanzo Gatta, fedele alla sua missione (laica) d’instancabile ricercatore di fatti e personaggi bresciani dedica un corposo e suggestivo articolo, pubblicato stamattina nel supplemento bresciano del Corriere della Sera.

Perché è così che lavora Gatta: che si tratti di un rivellino riscoperto e raccontato, di una simpaticissima “rianimatrice di bambole” o di due giovanissime che con il loro furgone portano caffè e biscotti sotto le case dei bresciani, che si parli della morte dell’ultimo abitante di un paesino montano destinato a diventare gost town, o della riscoperta di quegli attori che, nel corso della Grande Guerra, contribuivano a tenere alto il morale dei soldati al fronte e delle popolazioni martoriate dalle vicende belliche, la sua innata curiosità sembra non saziarsi mai.

A quanto si dice in giro, le sue attenzioni, da un po’ di tempo a questa parte, sarebbero rivolte a individuare e catalogare le innumerevoli amanti di un famosissimo protagonista della letteratura italiana che di una grande villa sul Lago di Garda fece dimora.

Un’impresa titanica che, con ogni probabilità, solo uno come lui può sperare di affrontare e di portare a termine con successo.

  Suor Irene Stefani

Al secolo Mercede Stefani, nata il 22 agosto 1891 ad Anfo nella Val Sabbia (BS). Nel 1911 entra nell’Istituto delle Missionarie della Consolata e il 12 gennaio 1912 veste l’abito religioso prendendo il nome di Irene. Il 29 gennaio 1914 emette la professione religiosa e alla fine dell’anno parte per le Missioni in Kenya, dove allora l’evangelizzazione era agli inizi e quasi inesistenti le scuole e i servizi sanitari. Dal 1914 al 1920, si dedica all’assistenza negli ospedali militari, che dell’ospedale avevano solo il nome, trattandosi di locali organizzati alla meglio per i portatori africani, denominati ‘carriers’, arruolati per trasportare materiale bellico al tempo della Prima Guerra Mondiale, che raggiunse anche l’Africa per il coinvolgimento delle colonie inglesi e tedesche.In questo ‘inferno’ sociale, suor Irene trascorreva le sue giornate di giovane missionaria, negli ospedali di Voi, Kilwa e Dar-es-Salaam in Tanzania; lavando, medicando, fasciando piaghe e ferite, distribuendo medicine e cibo, La seconda tappa della sua vita, dal 1920 al 1930, la trascorse nella missione di Gekondi, dedicandosi all’insegnamento scolastico. Istruiva le giovani consorelle giunte da lei per il tirocinio missionario, circondandole di affetto e attenzioni. Pur con le difficoltà di allora, continuò a seguire per corrispondenza, i suoi ‘figli’ africani che si spostavano più lontano, nelle città del Kenia, Mombasa, Nairobi, ecc., facendo anche da tramite con le famiglie. Curando un ammalato di peste, contrasse il micidiale morbo e morì il 31 ottobre 1930 a Gekondi, Kenia, a soli 39 anni, dei quali 18 trascorsi tutti in Kenya. Il 2 aprile 2011 Papa Benedetto XVI la dichiarò Venerabile, il 23 maggio 2015 per decreto di Papa Francesco viene innalzata alla gloria degli altari quale Beata.

   Bonera.2