Al Sant’Afra la fiaba nera di Emily Dickinson

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Il percorso della vita, si sa, è disseminato di curve e di incroci. Solitamente bivi, ma anche trivi e quadrivi. Così anche la più solida, affettuosa e complice delle amicizie, è messa a dura prova allorché le strade di chi la sta vivendo, inesorabilmente, cominciano a divergere.

Tanto più ciò accade nel caso di Emily Dickinson e la destinataria delle sue lettere che, grazie all’utilizzo di nuove tecnologie per l’analisi dei suoi scritti che, nonostante le cancellazioni, hanno identificato (nella maggior parte dei casi) in Susan Gilbert Dickinson, cognata in quanto moglie del fratello Austin. Un collegamento particolarmente forte, quello tra le due donne, secondo molti critici al limite e oltre un rapporto di corrispondenza amorosa.

«La separazione è squallida come la morte, ma accade molto più spesso» è la lapidaria sintesi del concetto.

E come potrebbe essere diversamente, per due donne simili? Una apparentemente omologata nella figura di moglie e di madre, l’altra che rifiuta il matrimonio, sceglie un isolamento che sa di autoreclusione, prima in casa e poi in una stanza della stessa. Che è affascinata da tutto ciò che si riferisce alla morte

Vestita esclusivamente di bianco, Emily affronta costantemente il tema della morte, e anche questo contribuisce a farla reputare “dalla gente” una donna particolamente “stravagante”.

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ph Umberto Favretto

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La cifra scelta da Monica Conti, per scrivere la drammaturgia e portare in scena «Fiaba femmina» è quella di una discesa senza se e senza ma negli oscuri inferi dei turbamenti della grande poetessa di Amherst che si può sintetizzare con una frase del copione: «L’angoscia non ha piume ed è troppo pesante per volare», soprattutto in un mondo claustrofobico come quello che si costruì attorno la Dickinson, in cui persino quel ronzio delle api, che una campagna pubblicitaria finalizzata alla difesa dell’ambiente descrive come un suono rassicurante e malinconicamente sempre più assente, nella pièce diventa un muggito pedante, molesto e macabro. E se suonano le campane non è certamente a festa, ma cupamente a morto.

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Perché alla fine, sottolinea Monica Conti, alla fine è nel pollaio di casa, che tutti ci si ritrova a rinchiudersi. È solo lì, in quel luogo costretto e soffocante utilizzato come trasparente paradigma della tomba, che alla fine dell’esistenza, per amore o per forza, ci si ritrova finalmente a riposare.

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ph Umberto Favretto

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Un riconoscimento alla regia che riesce a rendere comunque perfettamente commestibile un testo molto impegnativo che, chiaramente, non è, non può, (e probabilmente non vuole) essere alimento per tutte le bocche. Impeccabile la recitazione della stessa Conti insieme a Bruna Rossi (nella parte della poetessa americana) e Maria Ariis (la sua amica). Originale e suggestiva la scenografia di Roberta Monopoli, cui va riconosciuta anche l’azzeccata scelta dei costumi.

Quanto al Teatro Sant’Afra, che mette in mostra le migliorie apportate dal CTB particolarmente alla zona palcoscenico, pienamente superato l’esame di ammissione.

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