Da dove vengono e dove vanno gli assassini della cattedrale?

Un’opera non di facilissimo approccio, dunque. Un’operazione coraggiosa la cui messa in scena che vede in Moni Ovadia il volitivo protagonista principale, quella che ha debuttato poche ore fa al Teatro Sociale ricevendo i consensi e i convinti applausi del pubblico bresciano.

«Assassinio nella cattedrale» è un classico per il quale, infatti, esistono almeno tre piani di interpretazione, tre prospettive legate al tempo di riferimento. Il dodicesimo secolo, quando accaddero i tragici fatti narrati, il 1935, nel pieno fiorire dei grandi regimi totalitari fascio-nazisti-collettivisti nell’ombroso preludio del secondo terrificante conflitto mondiale e… i nostri giorni. ai quali con ogni evidenza occhieggia la rilettura che ne fa il regista Guglielmo Ferro. Ma su questo avremo modo di tornare più avanti.

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Partiamo da quanto accadde nei fatti (sempre che le narrazioni relative a complotti, congiure ed esecuzioni così abituali in quegli oscuri anni, riportate da figure in difficile bilico tra storici e aedi, possano ritenersi fonti del tutto attendibili: semplicemente l’esecuzione di un vescovo scomodo, messosi di traverso al Potere nel velleitario (almeno per allora) tentativo di separare il ministero divino dal potere temporale e bramoso di santità.

Diverso il discorso se ci riportiamo all’anno di scrittura: alla luce di quanto accennato in apertura, il dramma potrebbe leggersi come parabola attinente alla pratica liberticida di certi regimi dittatoriali espressioni di ogni credo politico estremo.

Passando alla contemporaneità, invece, è chiaro il riferimento alle degenerazioni di una politica che, mascherata di perbenismo, alla bisogna si risolve ad usare le maniere forti e fortissime, sentendo però la necessità di sollecitare democraticamente dall’opinione pubblica un processo di comprensione e di assoluzione. Ed è proprio questo, detto per inciso, la strada seguita in questa ennesima messa in scena di questo autentico capolavoro.

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Il testo originale e la trama:

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Nel 1935 Thomas Stearns Eliot scrive il dramma in versi Assassinio nella cattedrale (titolo orig. Murder in the Cathedral) che narra dell’uccisione, avvenuta nel 1170, dell’arcivescovo di Canterbury Thomas Becket per mano di quattro cavalieri inviati dal Re Enrico II. Sono gli ultimi giorni di vita dell’arcivescovo, di ritorno dalla sua permanenza-esilio in Francia, durata sette anni. L’autore si basa in gran parte sugli scritti di Edward Grim, un monaco testimone oculare dell’evento.

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Lo spettacolo:

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All’aprirsi del sipario, dalla platea si ha l’impressione che nello spettacolo sia rigidamente rispettato il testo originario se non addirittura la cornice storica dei fatti narrati, sia dal punto di vista letterale e stilistico che nell’ambientazione scenografica, succinto ma fortemente suggestivo richiamo alle ombre e agli echi di una chiesa medievale.

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Invece no. Proprio in ragione di quella triplice focalizzazione temporale di cui si è trattato all’inizio di questa recensione, significativi cambiamenti s’impongono nel progredire della rappresentazione. Le coreute e i quasi coreuti che sdoganano il prologo del dramma, presto si trasformano in qualcos’altro: consiglieri interessati, frati pavidi e tremebondi (come certi sudditi di certe nazioni) che temono le conseguenze del protagonismo dell’arcivescovo Thomas Becket, a sua volta smodatamente avido di martirio. Quanto agli inviati del Re, che finiranno per portare a termine la spettacolare esecuzione dello stesso (con modalità simili a quelle dei congiurati cesaricidi) appaiono vestiti come sicari mafiosi, anzi, peggio, come politici senza scrupoli. Proprio come insegnano certe uccisioni di stato decise e spudoratamente realizzate in questo ultimo periodo da tiranni indifferenti al rispetto di leggi nazionali e internazionali, nell’originale finale essi sollecitano con motivazioni di comodo la comprensione degli spettatori.

Come accade per determinati regimi che abbisognano di ottenere in qualche modo anche l’assoluzione (e quindi una qualche forma di approvazione) da parte dell’opinione pubblica interna e internazionale.

A ben vedere potrebbero tranquillamente essere sgherri della Gestapo, o del nuovo KGB.

Della regia, precisa, ordinata e attenta a tempi e movimenti, soprattutto fantasiosa nella interpretazione, si è già accennato. La recitazione di tutti è su livelli di eccellenza, con una particolare menzione per Moni Ovadia capace di scolpire nel personaggio di Becket tratti ieratici sotto i quali peraltro s’indovinano pesanti conflitti dettati da probabilmente insanabili contraddizioni morali e spirituali.

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