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Le interviste sono più o meno tutte uguali, dirà qualcuno. E invece no. Non in questa occasione, almeno.
Questa volta, come vedrete, useremo un metodo un po’ diverso (un po’ da macchina del tempo) con Paola Danieli, interprete della viziata e altezzosa mademoiselle Geneviève Lancelin nel dramma «Christine e Lea Le serve» ispirato al crudele fatto di sangue, accaduto a Le Mans, che nel 1933 sconvolse l’intera Francia. La pièce, scritta da Patrizio Pacioni e in corso di allestimento come coproduzione Associazione Le Ombre di Platone di Roma – Teatranti di Ospitaletto, per la regia di Katiuscia Armanni, la cui messa in scena è stata rinviata dall’incrudirsi della pandemia, è da tempo oggetto dell’attenzione di questa rubrica.
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Paola, visto che siamo convenientemente distanziati, puoi tranquillamente mettere via la maschera.
Scusami, ma sei proprio sicuro che “Su, togliti la maschera!” sia l’approccio più giusto per intervistare un’attrice abituata a indossarne una diversa per ogni recita?
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Opperbacco. Ho già capito che questo colloquio non sarà una passeggiata. Allora diciamo “Via la mascherina!” e partiamo per il nostro viaggio nel tempo. Chi è la Paola Danieli, donna come tutti noi a cavallo tra secondo e terzo millennio?
È una persona solare o almeno è quello che dicono di lei. In questi ultimi anni la vita ha picchiato abbastanza duramente, ma grazie alla famiglia e ad alcuni amici “illuminati”, Paola non si è mai arresa e, alla fine, ne è uscita alla grande, cambiando il proprio modo di vedere la vita. Adesso cerca di vivere il presente, il qui e ora. Ultimamente ha riaperto il cuore alle emozioni che, per un certo periodo, aveva preferito tenere in stand by e di questo ne ha avuto giovamento anche il suo modo di recitare. Si sente una donna nuova. Di quella che è stata un tempo, vale a dire una sempre pronta ad aiutare in modo disinteressato chi ha bisogno, è rimasto però un fortissimo imprinting.
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Cominciamo allora a scendere più nello specifico. Raccontaci del tuo approccio al teatro fino al fatidico anno 2.000, separatore di secoli e di millenni.
Il mio primo contatto con il teatro l’ho avuto a 8 anni, la maestra ci fece leggere una storia e io e il mio amico Dario decidemmo di metterla in scena, così quell’estate la passammo a provare con i nostri amici e a settembre debuttammo per i nostri vicini. Abbiamo continuato per altri due anni cimentandoci in un musical scritto da noi e organizzando una specie di festival con canti e balli, dove provai a fare anche la presentatrice. Ai tempi delle medie ho fatto un paio di spettacoli con la compagnia dell’oratorio e poi per anni abbandonai le luci della ribalta, finché a 19 anni entrai nella compagnia “Budget Zero” del regista e drammaturgo Osvaldo Romano, una compagnia dilettantistica, ma con un grande spirito. Arrivata all’università mi sono iscritta ai corsi di recitazione, dizione ed espressione corporea presso il CUT della Università Cattolica di Brescia, dove ho conosciuto Candida Toaldo, Giuseppina Turra e Gianluigi Vezzoli. Ho anche avuto l’occasione di fare un seminario sulla “Commedia dell’Arte” con Enrico Bonavera. Nel ’99 ho partecipato ad un laboratorio per mettere in scena “Edipo Re” per la regia di Anna Teotti e dove ho potuto lavorare con Antonio Palazzo.
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Adesso però tieniti forte che facciamo un salto avanti e ci ritroviamo nel terzo millennio. Cosa succede a Paola Danieli attrice?
Succede che entro a far parte e per qualche anno faccio parte della compagnia teatrale di Vittorio Palumbo con la quale mettiamo in scena diversi spettacoli, tra cui «Vittoria Accoramboni» dove interpreto il personaggio principale, vale a dire Vittoria. Nel frattempo (2002) decido di affinare la mia preparazione artistica frequentando la “Scuola dell’attore Emo Marconi” di Scena Sintetica con la quale (2005) si mette in scena una versione originale del «Sogno di una notte di mezza estate». Nel 2008 mi iscrivo alla scuola di “Teatri Possibili” di Corrado d’Elia nella sede di Verona che, però e ahimè, chiude i battenti al termine del primo anno didattico. Per fortuna il coordinatore della scuola riesce a indirizzare gli allievi (me compresa) nel laboratorio della compagnia “Teatro Impiria” con cui ho la possibilità di lavorare con diversi registi e su diverse tipologie di spettacolo. L’esperienza si protrae fino al 2012, anno in cui le strade del nostro bel gruppo si dividono e io torno a fare teatro esclusivamente a Brescia, iscrivendomi ai corsi di “Idrafactory”, dove ritrovo la mia ex compagna del CUT, Giuseppina Turra: una volta lì, colgo l’occasione per frequentare, oltre ai classici corsi di teatro anche la sezione teatro danza. Esaurita anche l’esperienza con Idra, comincio a collaborare con l’associazione culturale “Fagioli Stregati” di Castegnato, con cui portiamo in scena prima «Non lo potevo immaginare», uno spettacolo sulla prima guerra mondiale per la regia di Marcello Cominelli e, successivamente uno spettacolo per bambini e uno contro la violenza sulle donne («Era un bravo ragazzo», un testo davvero toccante che metteva a fattor comune anche le improvvisazioni emotive di noi attori e che mi coinvolse profondamente e mi fece commuovere al limite delle lacrime) entrambi per la regia di Antonio Romelli. Per la serie “il postino suona sempre due volte”, ritrovo poi Vittorio Palumbo, con il quale porto in scena «Storia di Rosetta», pièce liberamente ispirata a «La ciociara» e «Una ricetta per single» finalmente una commedia brillante che diverte molto anche me.
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Un gran bel percorso, il tuo: magmatico e pieno di cambiamenti. Tra tutte le persone che hai incontrato nel corso di questa tua intensa attività artistica, c’è stato un punto fermo, inteso come una persona di riferimento artistico e professionale?
Senz’altro il regista Osvaldo Romano, che è stato il primo a credere nelle mie capacità attoriali e con il quale, in tutti questi anni, non ci siamo mai persi di vista. Tuttora collaboriamo a dei progetti con le ragazze ospiti della comunità Mamré di Calcinato, anche se in questo periodo anche queste iniziative sono ferme a causa della pandemia.
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Esaurito il passato, inevitabilmente, è arrivato il momento di parlare del presente, vale a dire del tuo attuale impegno.
Lo faccio molto volentieri. «Christine e Lea» procede a gonfie vele, grazie alla bravura dei miei compagni di viaggio e all’impegno incondizionato che tutti noi stiamo profondendo nell’impresa, nonostante le difficoltà causate dal covid e dalle sue complicanze. Siamo rimasti tenacemente sul pezzo tramite le prove a distanza che, pur avendo su di me un effetto analogo a quello che esercita la Kriptonite su Superman, grazie alla bravura e al supporto della regista Katiuscia Armanni, si sono rivelate comunque di grande utilità. Recitare “a distanza” senza il contatto fisico con gli altri interpreti è stato duro, probabilmente per me più ancora che per altri, ma alla fine sono riuscita a trovare la chiave di volta per superare anche questo limite.
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La nostra macchina del tempo, arrivata velocemente al futuro, m’impone ora di chiederti di scegliere uno tra i tuoi desideri artistici che vorresti vedere realizzato il più presto possibile e, naturalmente, nel migliore dei modi.
Non so cosa ci sia nel mio futuro. Un’aspirazione importante, però, è quella di portare in scena spettacoli destinati a persone con disabilità, per provare a riversare anche su di loro ciò che il teatro ha saputo darmi nel corso di tutti questi anni.
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C’è un’ultima domanda, che sinceramente non avevo messo in scaletta ma che, arrivato a questo punto, visto che sei riuscita ad aprirti così, suscitando la curiosità e l’interesse miei e (ne sono certo) di tutti coloro che leggeranno questa intervista, non posso proprio omettere di proporti: che cosa rappresenta esattamente il Teatro, per Paola Danieli?
Il Teatro è un amico fidato, di quelli sui quali si può sempre contare, Qualcuno che non tradisce mai le mie aspettative e mi coccola come la coperta calda di Linus anche nel più rigido degli inverni. Lo ripeto spesso, per il semplice fatto che, nella mia vita, rappresenta una certezza e una verità assoluta: il teatro mi ha salvato la vita.
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GuittoMatto