Nell’epoca in cui, volenti o nolenti, tutti ci troviamo a vivere, l’immediatezza e la velocità della comunicazione, non disgiunte da esigenze di sintesi tendenti all’estremo, vanno prevalendo sempre più sull’attenzione e sull’approfondimento.
Ebbene, in una situazione come quella attuale, la pretesa di trattenere il pubblico a teatro per quasi tre ore consecutive (due atti di ottanta minuti ciascuno separati da un congruo intervallo, può a prima vista apparire quantomeno pretenziosa.
Eppure è esattamente ciò che accade per la coproduzione Centro Teatrale Bresciano, Teatro Nazionale di Genova, Centro Teatrale MaMiMò «La decapitazione di Marco Gualco» in scena al Teatro Mina Mezzadri di Brescia dal 14 al 17 novembre. Un dramma che si colloca nel cartellone ufficiale della cinquantunesima stagione del Centro Teatrale Bresciano, intitolata L’arte è pace, nell’ambito della rassegna Nello spazio e nel tempo. Palestra di teatro contemporaneo.
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(ph Letizia Maria Leoni)
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Lo spettacolo:
Fin dalle prime battute si capisce che l’intenzione di autore, regista e interpreti è quella di sperimentare. A partire dal titolo, che unifica in sé (poi ne vedremo il perché, o uno dei perché) il nome di un interprete e quello del protagonista della pièce, per passare alla trovata degli attori in scena sia nel pre-spettacolo che nel corso dell’intervallo. Quanto al testo, più che una vera e propria trama, si rivela piuttosto un tramite narrativo, utile ad annodare una serie di situazioni a volte tra essi indipendenti con spunti di riflessione su vari temi, come l’amore, il tradimento, e ossessioni, la menzogna verso il prossimo e verso se stessi, la violenza del potere…
Ovviamente anche l’impostazione scenica è in perfetta linea con quanto premesso: in un alternarsi ossessivo di flashback più volte si confondono la realtà con la sua rappresentazione, la fantasia e l’immaginazione con l’originalità e l’imprevedibilità di una scrittura drammaturgica; a più riprese, in un’atmosfera satura di simbolismi e di allegorie, si propone la coincidenza non occasionale né casuale tra la vita e la finzione scenica, in un’operazione di metateatro peraltro non propriamente nuova ai palcoscenici.
Infine, ma non ultima considerazione, nel numero(sei) e in determinati passaggi e dialoghi non si può non riconoscere un esasperato richiamo pirandelliano nell’ambito di una reinterpretazione in chiave terzo millennio. Altrettanto riconoscibile il voluto collegamento con la tradizionale ineluttabilità del Fato propria della tragedia greca
Nel complesso, ad avviso di chi scrive, un’operazione culturalmente suggestiva e ben realizzata ma, forse, al limite di un velleitarismo tipico della fascia di età di chi l’ha ideata e la propone. Un momento della vita in cui l’essere umano, in particolare l’artista, è convinto, a torto o ragione, dell’assoluta originalità delle proprie intuizioni e della propria potenzialità di cambiare il mondo da solo.
Nonostante la lunghezza della rappresentazione e un finale a mio avviso un po’ troppo didascalico e tirato troppo per le lunghe, il pubblico manifesta nel corso e alla fine chiaramente percepibili segnali di gradimento, e solo questo è già un grandissimo risultato.
Insieme a Marco Gualco, agiscono sul palcoscenico gli attori Matteo Alfonso, Vincenzo Castellone, lo stesso regista Riccardo Cacace, Susanna Valtucci e Matteo Sintucci della compagnia La corte di Pagobardo, formata in larga parte da un gruppo di giovani ex allievi della Scuola del Teatro Nazionale di Genova. Un’ottima scuola, vista la qualità e l’intensità messe in mostra da tutti gli interpreti, nessuno escluso.
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