Il mare unisce e divide, libera e imprigiona.
Ed è proprio il respiro del mare che fa da sottofondo alla pièce scritta da Strindberg e marcata dall’inconfondibile stile di regia di Luca Ronconi. Scena sontuosa, livida e lugubre quanto basta sia nelle tappezzerie che negli arredi, soffusa di riflessi cinerei, sovrastata in alto da due finestre che si aprono di tanto in tanto sul buio profondo delle onde notturne, sulle note di una festa da cui, come dalla festa della vita, i due coniugi sono da sempre e per sempre esclusi. Soffia forte il vento, fuori e dentro la torre in cui abitano e sono prigionieri i protagonisti di questo singolare spettacolo: spira talmente forte da spostare i mobili, da togliere ogni punto di riferimento nella scena e nelle due vite che stanno franando, mentre un vecchio telegrafo, unico contatto con il resto del mondo che ancora resista, fa da metronomo allo scorrere implacabile del tempo.
Il padre di un mio amico, incorreggibile quanto corrosivo buontempone, alla vigilia delle sue nozze d’argento era solito dire:
<Se mi fossi macchiato di un efferato omicidio, a quest’ora, probabilmente, sarei già fuori dal carcere. Invece ho scelto di sposarmi, ed eccomi qui> spiegava ironicamente ai figli.
<Ma tu, contro chi ti sei sposato?> continuava poi, rivolgendosi alla rassegnata moglie.
Ecco, l’identica domanda, probabilmente avrebbero dovuto porsi i protagonisti di questa cupa rappresentazione di scene da (un) matrimonio (ahimé), per niente affatto inconsuete. Situazioni che si ripetono con inquietante ripetitività nel panorama sconsolante di un cosiddetto “istituto familiare” che, logorato nei più fondamentali ingranaggi dalla polvere dei secoli, andrebbe profondamente ripensato, revisionato e rilanciato (ove possibile) in un modello di nuova generazione.
La storia di <Danza macabra> è questa: Edgar (ufficiale cinico e scoglionato) e Alice (ex attrice priva di talento, malmostosa e dolente) sono, loro malgrado, marito e moglie. Si mal sopportano e si detestano, da venticinque lunghissimi anni. Di più: si odiano, si desiderano reciprocamente morti e/o rovinati. È il rancore dei piccoli gesti, dei banali disaccordi suggeriti da una lunga quanto forzata convivenza, dell’intolleranza verso i difetti, le sciatterie, le inutili ridondanze e le meschinità che in ogni anima, fosse anche la più nobile, inevitabilmente fanno il nido. E che nelle fattezze, nelle movenze, nelle mutazioni causate dal progredire dell’età negli anni, clamorosamente trovano amplificazione. Al punto che, l’incombere di una morte più desiderata come liberatrice che temuta come disintegratrice, tutto sembra coprire in un funereo sudario.
È danza macabra, sì, eccome se lo è, tra Edgar e Alice. E lo diventa ancora di più quando nel ballo (che da un nero “pas à deux, inopinatamente, si trasforma in un ancora più cupo e mortifero”pas à trois”) viene coinvolto lo spaesato cugino Kurt, macchiato dell’indelebile colpa di avere favorito l’incontro della coppia. Catalizzatore, amplificatore, venefico energizzante, il nuovo arrivato sembra rianimare il peggio di una coppia già abbondantemente inquinata, ravvivare il perverso rapporto prigioniero-carnefice che, con equa reciprocità, avvince l’uno all’altra Edgar e Alice. Privati di ogni energia dalla vecchiaia incombente sia nel corpo che nell’anima, i due succhiano energia dal terzo (in)comodo, trasformandosi nelle ombre inquietante dei vampiri suscitati e raccontati dalla grande letteratura gotica.
Gli interpreti sono Adriana Asti e e Giorgio Ferrara (e ci auguriamo che il loro menage familiare -visto che fanno coppia anche nella vita- sia ben diverso da quello dei personaggi di cui vestono i panni) felicemente esagerati sia nel modo di porre le battute che -soprattutto- nell’espressività facciale e nelle movenze. Ottima anche la prova di Giovanni Crippa che impersona con efficacia il cugino Kurt, compassato, fin troppo educato, premuroso, pedissequa replica dell’uomo qualunque, che mi ha ricordato (badate bene, questa è solo un’impressione strettamente personale) certe performance pubbliche del ministro Alfano.
Tutto finisce con un abbraccio che vorrebbe essere consolatorio ma che, in realtà, aggiunge solo un’orrenda, incondizionata e definitiva resa dei due coniugi, irreversibilmente logorati dall’azione devastante del tempo e della noia. È l’ultima stretta tra due boa constrictor che per tanti anni si sono soffocati l’un l’altro e che si avviano a morire senza mai essere stati realmente vivi.
Lavoro difficile da leggere e da introiettare, ma i convinti applausi del pubblico ne certificano il “missione compiuta”.
Ancora domani, in pomeridiana alle ore 15,30, al Teatro Sociale.
di August Strindberg
traduzionee adattamento Roberto Alonge
regia di Luca Ronconi
scenografia Marco Rossi
costumi Maurizio Galante
luci A. J. Weissbard
suono Hubert Westkemper
con Adriana Asti, Giorgio Ferrara, Giovanni Crippa
produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana · Spoleto57 Festival dei 2Mondi
in collaborazione con Mittelfest 2014
GuittoMatto