Brescia Città del Teatro (29) – Saggio in agrodolce con l’insana sanità del Bel Paese

L’IDRA rappresenta le molteplici facce dell’attore ovvero le diverse maschere che egli di volta in volta è solito indossare in maniera non dissimile da ciò che avviene nella realtà di ogni giorno per ogni essere umano. Ad un altro livello possiamo dire che il mostro dimora nella caverna del nostro subcosciente ed ogni testa raffigura le passioni più sfrenate, i desideri inconfessati, le paure, i sentimenti reietti che fanno parte di ogni individuo. Il gioco consiste nel rendere positivo questo bagaglio, giacché esiste, per riuscire poi ad affrontare qualsiasi personaggio, anche quello che risulta più ostico (soprattutto alla nostra parte interiore).

Fino a qui non ho dovuto lavorare molto: la presentazione di Idra (Vostro Onore lo confesso!) l’ho presa dal sito ufficiale dell’Associazione bresciana che, nata nel 2002 e affiliata alla UILT (Unione Italiana Libero Teatro), opera alacremente per sollecitare e sviluppare le qualità attoriali e per promuovere la produzione e la rappresentazione di testi di nuova drammaturgia, con particolare attenzione all’utilizzo di forme di comunicazione nuove e innovative.

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Venendo a Dica 33, realizzato su soggetto e sceneggiatura di Lorenzo Trombini (che si è occupato anche della regia con la collaborazione di Patrizia Volpe) andato in scena davanti a un folto pubblico ieri sera presso lo Spazio Idra del MoCa, si tratta appunto del lavoro finale della classe di teatro del primo anno di IDRAfactory.

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Lo spettacolo:

«L’impresa è memorabile quando si torna cambiati» dice la voce che introduce la rappresentazione del saggio.

Poi entrano loro, i dottori in camice bianco. Anzi gli specialisti, visto che per i medici cosiddetti generici gli spazi si comprimono ogni giorno di più. In un vivacissimo consulto, organizzato per la presenza in ospedale di un rarissimo caso di Sindrome di Tourette. Pur di approfittare della ghiotta occasione di visibilità che potrebbe derivare dallo studio di quel singolare caso clinico, ciascuno di loro, dal dentista all’ortopedico, piegando ogni solida considerazione clinica e la realtà stessa ai propri desideri, si avoca il diritto di partecipare alla diagnostica e alla terapia. Delineando così, con grottesca evidenza, che il paziente è visto più come una preda che come un malato da guarire.

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Parallelamente a ciò, vengono rappresentati episodi di gestione ordinaria dell’ospedale attraverso le visite di singoli pazienti, anch’essi non esenti da colpe e difetti, tra ipocondrie e malattie immaginarie e fantasiose, novax documentatissimi sulle mai affidabili pagine del web. E, anche in queste occasioni, il sistema sanitario non si cura minimamente di nascondere i propri vizi, primo tra tutti quello di una gestione avida e predatoria tra il ricorso all’assistenza pubblica e quello alla privata.

Per quanto riguarda gli interpreti, pur con qualche inevitabile inciampo dettato a qualcuno di essi dall’emozione della prima esibizione in pubblico, si nota l’accuratezza con la quale sono stati preparati e, in nuce, la presenza in diversi allievi di futuri positivi sviluppi in una pratica professionale del mestiere di attore.

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Scorrevole e vivace la regia, azzeccata la scelta di trasformare in un paradossale slogan persino il sacrale Giuramento di Ippocrate, efficacissimo il coro-gingle che conclude la pièce, cantato con allegro eccesso dai bizzarrissimi medici e dai loro singolari assistiti: un tambureggiante «Aulin-Buscopan-Fluimicil» che trascina irresistibilmente gli spettatori e li predispone a un lungo, convintissimo applauso.

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