Il Teatro: da sempre puzzle di crucci, vitalità e… immensa fantasia.

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È diventato, da molto tempo ormai, una specie di mantra pessimista e sconsolato: «I quotidiani cartacei sono destinati a morire, soppiantati dalle notizie diffuse on line».

Un ritornello sempre uguale, ripetuto e rilanciato con tale certezza che, alla fine, finisce per crederci anche il più accanito estimatore e sostenitore della carta.

Poi, ecco che capita tra le mani di un appassionato di Teatro (come me!) una copia di giornale come quella relativa all’edizione di ieri del Corriere della Sera, e subito si cambia idea.

Non uno, ma ben due articoli di grandissimo interesse, due eccezionali spunti di riflessione su passato, presente e futuro di quanto si muove dietro e davanti il sipario.

Cominciamo con il primo dei due “pezzi” che hanno suscitato il mio interesse.

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Dunque anche i grandi scrittori (nel caso di monsieur François-Marie Arouet direi immenso scrittore, e filosofo, per giunta) soffrono di complessi d’inferiorità. L’autore di «Candido»,  del «Trattato sulla tolleranza», di «Zadig» e di tante altre opere di grandissimo spessore letterario e concettuale, ci riferisce l’articolista del Corriere Paolo Conti (prendendo a sua volta spunto dal saggio di Mara Fazio Carandini «Voltaire contro Shakespeare» edito da Laterza) non ne fu immune: per gran parte della sua altrimenti gloriosa e vincente vita, infatti, si rammaricò di non ricevere, da drammaturgo, gli stessi successi e gli stessi riconoscimenti che gli venivano riservati grazie alle sue altre  molteplici attività creative e divulgative. Insomma, pare che il desiderio spasmodico di affiancarsi nella considerazione della Francia e del mondo ai mostri sacri del Teatro d’oltralpe, Racine e Corneille,  in un’alternanza di successi e clamorosi fiaschi, non fu mai soddisfatto completamente.  A completare quel fastidioso senso di frustrazione, poi, si aggiunse il confronto al quale lo stesso Voltaire sottopose se stesso mettendo in gara i suoi drammi («Oedipe» e «Irène», ma anche, ahimé!, la sciagurata  «Mariamne» con le inarrivabili tragedie del Grande bardo.

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Di tutt’altra intonazione l’altro articolo, pubblicato tre pagine più avanti e firmato, questa volta, da Giuseppina Manin.

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Qui, infatti, si riferisce una notizia, anzi, si racconta e si spiega una idea originalissima e coraggiosa.

Si tratta dell’invenzione di Davide Livermore, regista di grabnde spessore e, al presente, direttore del Teatro Nazionale di Genova. Sollecitato dalle pesanti conseguenze derivate all’attività teatrale di mezzo mondo dalla crisi causata dal Covid (in certi casi risukta perfettamente vero l’antica massima che il bisogno aguzza l’ingegno), ha pensato bene di fare uscire l’attività teatrale dagli edifici a essa deputati caricando “baracca e burattini” (in questo caso scenografie, attori e maestranze) su un TIR (inteso come Teatro In Rivoluzione, oltre che Transports Internationaux Routiers) che, giunto a destinazione, si trasforma in capace e accogliente palcoscenico mobile. Si comincia, “in casa”, cioè a Genova, con l’opera «Bastiano e Bastiana», creazione giovanilissima di Mozart.

Iniziativa di grandissima suggestione che mi regala una certezza: finché ci saranno visioni e volontà come quella di Livermore, ne sono certo, il Teatro non potrà mai declinare e morire.

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