Nuvole di parole (8) – Dylan Dog, il nuovo corso… è un vicolo cieco

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In questi ultimi due anni ho acquistato regolarmente la serie regolare di Dylan Dog, ma non ho letto i fumetti, accumulando i fascicoli in libreria e placando nel frattempo  la mia costante fame di “indagatore dell’incubo” con almanacchi, speciali, color-fest e old-boy e quant’altro apparisse in edicola.

Poi, oltrepassato il fatidico numero 400, me li sono sparati tutti insieme.

Una scelta che viene da lontano, vale a dire da quando la cura del magnifico personaggio creato da Tiziano Sclavi (sia gloria per sempre al suo nome) passò nelle mani di Roberto Recchioni.

«Perché l’hai fatto?» chiederà qualcuno. «Dove vuoi arrivare?» m’interrogherà un altro. Chi non c’è dentro non può immaginare quanto possa accendersi un dibattito quando si comincia a trattare di fumetti.

Il fatto è che c’è un metodo, nell’universo sclaviano, un equilibrio che posa sula figura dell’Eroe e su quelle meno decise e dotate di minor contrasto (ma accuratamente scolpite) dei coprotagonisti, primi tra tutti il perfido Xabaras, la spalla comica Groucho e l’ispettore Bloch, oltre alle guest star come Johnny Freak e molte delle tante fidanzate di Dylan (da intendersi come tessere di un unico grande mosaico rappresentante l’universo femminile del Nostro).

Un equilibrio che, per proporre un esempio di immediata visibilità, potrebbe essere paragonato all’aspetto di un cubo di Rubik risolto, all’armonia di sei facce colorate che non può essere mantenuta se se ne tocca e se ne sposta una sola tessera. Insomma, Tex con i suoi pard e con Mefisto, Batman con Robin, Gordon e Joker, Diabolik e Ginko… e così via.

Fin dalle prime storie pubblicate nella nuova gestione, avevo avvertito un procedere per tentativi confuso, affannoso e artificioso al tempo stesso, come se si volesse portare a forza un personaggio (e che personaggio, capace di sedurre e fare innamorare diverse generazioni di lettori!) lì dove, probabilmente, lo stesso non avrebbe mai voluto arrivare.

Quali possono esserne i motivi? Provo a formulare alcune ipotesi:.

a) Una reazione istintiva, ma non per questo meno sbagliata  a  una flessione delle vendite (ma Recchioni ha giurato e spergiurato che così non è) ;  

b) la voglia di arrestare, mischiando le carte, una insidiosa e crescente penuria di nuove idee narrative, reagendo con lo scomposto agitarsi di  un pesce tirato fuori dal mare;  

3) il manifestarsi, nel nuovo timoniere, di quella pulsione incontrollata e incontrollabile che in psicanalisi è descritta come “uccisione del padre” (e il padre sappiamo bene chi è);

Mah, vallo a sapere.

La lettura “compattata” di venticinque albi di seguito, culminati con la saga della meteora, mi ha rafforzato nell’idea di un progetto che, invece di essere governato dal proprio artefice, si è impadronito dello stesso, sottraendolo gradualmente a una più meditata gestione della navigazione, finendo per condurre lui, l’albo e i lettori, su una rotta puntata verso il niente o, perlomeno, verso qualcosa in stridente contrasto con gli obbiettivi e le prassi narrative che avevano favorito lo straordinario successo del brand.

Della frammentazione ideale che contraddistingue le ultime duemila e passa pagine di Dylan Dog sono ampia dimostrazione la reintroduzione come attivissimo protagonista di Bloch, trasformato però in una specie di Rambo che nulla ha a che vedere con la pacata e cocciuta forza della figura creata da Sclavi; l’utilizzo, nella parte del super-cattivo dello sbiadito e insapore John Gost, gli sbrigativi e non adeguatamente preparati sviluppi sessual-sentimentali della love story tra l’appena abbozzato ispettore Carpenter e la inutilissima Rania…

In un progressivo deteriorarsi del filo narrativo che coinvolge in una rovinosa caduta di qualità delle storie narrate anche bravissimi narratori come le incolpevoli Barbara Baraldi e Paola Barbato che, negli episodi loro affidati, cercano almeno, come si dice, di tenere a galla la barca, riuscendoci peraltro da par loro. Altri grandi, come il pur straordinario Carlo Ambrosini creatore di Napoleone, sono lasciati affogare in un mare limaccioso che, con ogni evidenza, non è il loro.

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Assolutamente farraginosi, poveri, persino  grotteschi in alcuni passaggi, i numeri 399 e 400 (soggetto e  sceneggiatura dello stesso Roberto Recchioni) che avrebbero dovuto rappresentare, nelle intenzioni, i fuochi di artificio esplosi per illuminare e festeggiare l’avvio di un nuovo corso.

In particolare, dopo l’imbarazzante minestrone servito ai lettori con il numero 399 (coinvolgendo nella scellerata impresa, tra gli altri disegnatori, anche fenomeni del calibro di Corrado Roi e Angelo Stano)  l’introduzione al numero 400 appare, a un’attenta lettura, un autentico inno all’autocompiacimento intessuto di un’accozzaglia di dotte citazioni, Il canto di un bambino che, impaurito, al venir della sera si accinge a entrare nel bosco, ben sapendo che è proprio lì, che si nasconde il lupo.

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Forza, Dylan. Riuscirai a sopravvivere  anche a questo incubo.

Forse.

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