Una sostanza… di grande sostanza

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La migliore lettura scenica di questa edizione di Teatro aperto? Posso rispondere senza esitazione alcuna che, fino a questo momento, non ci sono dubbi: si tratta di 《La sostanza del fuoco》 , che (con il coordinamento registico di Elisabetta Pozzi)  hanno potuto vedere gli affezionati e fortunati spettatori presenti ieri pomeriggio al Teatro San Carlino.

Un testo, quello composto nel 1991 da Jon Robin Baitz, drammaturgo americano vissuto a lungo in Sud Africa e Brasile, che non dimostra i suoi quasi trent’anni di età e che rappresenta davvero un convincente esempio di quel che dovrebbe essere la scrittura teatrale: trama stringata e serrata, ritmo incalzante, dialoghi ben calibrati, momenti di riflessione ben calati nella narrazione e frammisti al procedere spesso sorpremdente della storia.

Con il pregio aggiuntivo di spalancare una finestra sul mondo della quotidianità, dei sogni, degli ideali culturali e sociali, sui conflitti interni della comunità ebraica di New York e, soprattutto, su un mondo-specchio di quello reale, come l’editoria.

Un reduce dell’olocausto con l’ossessione del nazismo (Isaac, impersonato da un Vittorio Franceschi in straordinario stato di grazia, patriarca non solo della propria famiglia ma anche di una piccola casa editrice in crisi d’identità e di vendita, entra in colisione con i percorsi di vita dei propri figli; il confuso Martin (nei cui panni si cala senza sforzo Fausto Cabra), una specie di Cincinnato post litteram; la timida e assente Sarah (Anna Scola); il rampante e ringhiante Aaron (Gianmarco Pellecchia) si impegnano nel primo atto in una specie di partita a scacchi il cui scopo, come si sa, essenzialmente è quello di mandare a morte il Re. 

La problematica e misteriosa Marge (perfetta la recitazione della stessa  Elisabetta Pozzi, impeccabile nell’avvolgersi di ricordi, rimpianti, dubbi e rimorsi) irrompe invece nel secondo atto. Chiamata a fare da arbitro nella vertenza intergenerazionale, ma non disponendo della necessaria imparzialità, in un flagrante stato di conflitto d’interessi, mischia e scombina carte che mutano nel momento stesso in cui, una per una, cominciano a scoprirsi sul tavolo verde della vita.

L’assenza dell’allestimento scenico tradizionale potenzia all’ennesima potenza la potente suggestione della fantasia, assorbendo completamente il pubblico nella narrazione e nella lettura-recitazione e, letteralmente, trasportandolo nell’effervescente New York City ante 11 settembre.

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Lunghi e prolungati gli applausi tributati dal pubblico, me compreso.

Confesso di non aspettare altro, arrivati a questo punto, che vedere presto sul palcoscenico del Sociale questo autentico gioiello di drammaturgia contemporanea. 

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