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Il contesto:
Di Adolf Hitler e della sua sanguinosa dittatura, purtroppo, sappiamo tutto ciò che c’è da sapere. Di Max Schmelling e Joe Louis e del rapporto che ci fu tra loro, invece, non tutti sono completamente al corrente.
«La sconfitta con Joe Louis mi salvò dal diventare l’ eroe ariano» disse Max Schmeling, il pugile scelto dal Fuhrer per conquistare al terzo Reich il titolo più prestigioso della boxe (in mano a Joe Louis) proprio nella tana degli odiati nemici capitalisti.
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Un duello senza esclusione di colpi tra la dittatura e la democrazia combattuto attraverso la pratica sportiva e il suo vigore propagandistico, a vederla così su due piedi, ma in realtà…
In realtà il rapporto tra i due campioni fu molto più complesso di quanto si possa immaginare.
Innazitutto Schmeling era molto vicino all’America, se così si può dire, visto che dal 1929 in poi vi aveva disputato numerosi combattimenti. Al punto che, in occasione del primo scontro con Louis, i razzisti americani gioirono della sua inaspettata vittoria per ko sul campione “negro”. Quando però, due anni più tardi, vi tornò per concedere la rivincita e conquistare il titolo di campione del mondo ancora (ingiustamente) in mano al rivale, tutto era cambiato e lui non era più il bianco, l’occidentale, il tedesco, ma il perfido nazista che meritava odio e disprezzo. In un bizzarro gioco di contrappesi che si sarebbe perpetuato fino alla fine delle vite dei due pugili, esattamente il contrario accadeva per Joe dapprima oggetto di discriminazione per il colore della pelle, poi campione della libertà contro la barbarie della dittatura. Tra i due, però, fino a quando diventarono vecchi, non sorse mai nessun sentimento negativo che travalicasse i limiti di una pur accesissima rivalità sportiva, anzi…
Finita la guerra, Joe Louis finanziò l’inizio dell’attività commerciale dell’antico rivale, aiutandolo a risollevarsi economicamente e socialmente, Max Schmeling, a sua volta, diventato benestante aiutò l’altro a non affogare la propria vecchiaia in un mare di debiti.
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Lo spettacolo:
La scenografia essenziale ma ricca di fantasia, partorita da Giuseppe Luzzi, cala gli spettatori fin da prima dell’inizio dello spettacolo, con il sottofondo del blues arcaico ma genuino degli anni ’30 e i due interpreti della pièce che attaccano manifesti d’epoca su un muro grigio, nella giusta atmosfera anteguerra; il tutto a sipario rigorosamente aperto e luci di sala ancora accese, mentre il pubblico prende posto e scambia le ultime chiacchiere, come sempre più “fa tendenza”.
Alessandro Mor e Alessandro Quattro (bravi e ormai affiatatissimi tra loro) impersonano le due diverse campane (quella yankee e quella nazista) della narrazione di un’epopea non solo sportiva, sapientemente indolenti e confusionari e simpaticamente cialtroni.
Due accattivanti imbonitori che camminando in difficile equilibrio su due fili sottili ma resistenti (quello della narrazione storica e quello della provocazione politica e filologica) riepilogano con stupefacente leggerezza e scioltezza una vicenda intricata in cui, a più riprese, si confonde una credibile individuazione di chi sia la marionetta e chi il burattinaio.
Semplicemente impeccabile la regia di Angelo Facchetti (ottimamente coadiuvato da Gianni Rossi) capace di “licenziare” il pubblico divertito e molto più informato di quando ha messo piede in teatro.
Impresa non facile, salutata dal palese e caloroso consenso di un lungo e convinto applauso.
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«124 secondi» replica al Teatro Santa Chiara Mina Mezzadri fino a giovedì 6 febbraio
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