Ah, se l’è bel, «Le Bal» !

Che bei tempi, quando per tentare di conquistare una ragazza, invece di un banale like si cominciava in un balera con un bel  «Signorina, mi concede questo ballo

Allora, erano gli anni ’50, ’60 e ’70, ci si cominciava ad accoppiare (in senso buono) per sintonia epidermica, per affinità preventiva e presunta, invece che con una scelta in un sito d’incontri che sa troppo di lista per la spesa.

Quando le ragazze, ordinatamente allineate lungo la parete lunga, il sabato pomeriggio, aspettavano di essere invitate a danzare, sedute compostamente e con le mani appoggiate sulle ginocchia.

Poi c’era il ballo, ovviamente. Ballerini che volteggiano, si agitano, ma rispettando gli spazi degli altri che danzano intorno; corpi maschili e femminili che prima si sfiorano, poi vengono a contatto, ma non troppo, solo fino a un certo punto, con la frontiera della decenza che arretra ma non scompare mai del tutto. Regole che si sovvertono all’interno di altre regole. È questa la meraviglia. La trasgressione dura solo tre minuti, o quattro, poi si torna nei ranghi, fino al prossimo disco. Eccitante e rassicurante, cosa può esserci di meglio?

Comincia così «Le Bal», versione italiana (Viola Produzioni) curata con grande professionalità e vivace fantasia da Giancarlo Fares , di un format che ha già tanti positivi riscontri ha ricevuto in Francia, Germania, America Latina e altrove.

È successo ieri sera, nell’ambito della rassegna estiva La Versiliana, con la rappresentazione all’aperto di Marina di Pietrasanta, interpreti e spettatori immersi nel verde e sotto un soffitto di stelle.

  

In una dimensione parallela, straordinariamente affine a quella reale ma infinitamente più poetica ed evocativa, per una volta almeno hanno taciuto le parole per lasciare spazio alla narrazione di straordinaria efficacia e suggestione delle note e della danza. Sì, è la musica a farla da padrona, trasformandosi per una volta, con dolce violenza, da mero sottofondo in protagonista assoluta.

E allora via! In pista!

Si parte dai confetti zuccherosi di romanticismo e buoni sentimenti (tanto dolci e consolatori quanto velenosi di caduche illusioni) degli anni dei telefoni bianchi.

Ben presto nel fox trot italianizzato delle sorelle Lescano e degli altri, però, s’inserisce il ritmo di marce più marziali, poi arriva il primo “me ne frego”, seguito da altri slogan sempre più aggressivi e militareschi; cade la maschera e si mostra, in tutta la sua mostruosità, l’arcigno volto dell’oppressione. Fino alla sconsiderata quanto brutale avventura africana, scandita dalle note di Faccetta nera e oltre, giù, a capofitto nel sanguinoso mattatoio della seconda guerra mondiale.

Partono, i soldati italiani. Le donne, rimaste sole, svestono pizzi e merletti e indossano tute, camici, grembiuli, per sostenere le famiglie mentre i mariti, i fidanzati, i padri e i figli combattono al fronte in nome del niente.

Partono i soldati, ma non tutti tornano.

La musica si fa più austera, languida, malinconica, plumbea.

Scendono i tedeschi, i barbari nazisti più feroci dei lupi, schiacciando sotto i  talloni di acciaio delle SS speranze, aspirazioni e ogni libertà, recidendo vite come fiori.

Finiscono le cose belle, ma hanno un termine anche gli incubi, per fortuna: la guerra si esaurisce in un suggestivo bombardamento finale, dai cui scoppi nascono le note di un boogie-woogie forsennato, come il respiro di un naufrago strappato alle onde.

È l’Italia del neo-realismo cinematografico e dei miti americani di Happy Days rivisitati da Celentano e Rita Pavone, il Paese meraviglioso della seicento e della lambretta, della villeggiatura, dei miti americani del “moltiplicatevi e arricchitevi”, dove nessun traguardo sembra precluso.

Solo un intervallo, anche questo, perché la Storia, quella con la esse maiuscola, è un macchinario dai denti aguzzi, che va avanti per conto suo, schiacciando i sogni che gli si parano davanti.

Il boom si sgonfia, arriva il flagello dell’eroina che corrode le vene e le idee, incombe il sospetto e il disprezzo verso tutto ciò che è diverso, intrighi si succedono a intrighi, pasticci brutti, scandali, mentre nel buio lampeggiano sinistre le torce elettriche dei ragazzi di “Le Bal”.

Siamo alla fine, ormai.

In rapida successione si srotola il tappeto mobile dell’arroganza craxiana-berlusconiana, sulle note tronfie della disco dance, su seni e cosce esposte, su carne femminile e maschile in vendita a buon mercato, sulla livida rabbia della Legge che può mettere solo inciampi ma non riesce in nessun modo a fermare la corruzione dilagante.

Mentre cellulari, hi-pad e auricolari ipnotizzano uomini e donne, anche quando la musica non c’è più, riducendo tutti a inerti automi, ecco due boati giganteschi.

Dal varco aperto dall’immane crollo delle Torri Gemelle entra nella vita di tutti i giorni il nuovo mostro, il terrorismo.

E il sipario viene giù.

Applausi, tanti, prolungati meritatissimi.

Una recita muta in cui sono i corpi e i volti dei giovani, bravi e ispiratissimi attori-danzanti a esprimere molto meglio di un testo scritto la verità di sessant’anni di Storia italiana.

A emozionare, a divertire e a commuovere un pubblico quanto mai partecipe che, alla fine, si mette a ballare anche lui.

 

  Sennò,  mi sapete dire che “Le Bal” sarebbe?

 

LE BAL 
L’Italia balla dal 1940 al 2001
da LE BAL, una creazione del Théâtre du Campagnol
da un’idea e nella regia di
Jean-Claude Penchenat
con
GIANCARLO FARES, SARA VALERIO
ALESSANDRA ALLEGRINI
RICCARDO AVERAIMO
ALBERTA CIPRIANI
VITTORIA GALLI
ALICE IACONO
MATTEO LUCCHINI
FRANCESCO MASTROIANNI
DAVIDE MATTEI
MATTEO MILANI
PIERFRANCESCO PERRUCCI
MAYA QUATTRINI
MICHELE SAVOIA
PATRIZIA SCILLA
VIVIANA SIMONE

coreografie ILARIA AMALDI
uno spettacolo di
GIANCARLO FARES

 

  Guitto Matto