Se ci si pensa bene, non c’è nessuno di noi che, almeno una volta al giorno (ma più spesso più volte al giorno), non si trovi a “raccontare” qualcosa a qualcuno o, in mancanza, a farlo con se stesso. «Dove sei stato, caro?» «Sono passato al supermercato. Incredibile come fosse strapieno di gente, da non respirare, neanche oggi si potesse fare la spesa gratis. E non parliamo della ragazza che era alla cassa: lenta, logorroica…»
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Ecco: senza neppure accorgercene, in questa occasioni, come in mille altre, si mette in pratica quel termine che nella nostra lingua chiamiamo affabulazione, ma che ormai è conosciuta in tutto il mondo occidentale con il termine inglese di storytelling, narrando un fatto (piuttosto banale peraltro) inserendo il nostro punto di vista soggettivo, la descrizione suggestiva dell’ambiente in cui si è svolto e di almeno uno dei protagonisti della narrazione. Sempre più spesso e in modo sempre più curato e professionale, questo modo di comunicazione evocativa, oltre che come pratica di promozione pubblicitaria e di marketing legato ad attività commerciali e/o a determinate linee di prodotto, assume un aspetto spettacolare attraverso la proposizione di eventi a metà strada tra la cronaca e il teatro, esercitando su una larga fetta di pubblico una solida e crescente attrattiva.
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Nel tardo pomeriggio di ieri sera, presso l’antica e suggestiva cripta del Santuario di Sant’Angela Merici, organizzato da Roberta Morelli Events in collaborazione con l’Associazione Arnaldo da Brescia, alla vigilia della giornata mondiale dedicata alla memoria della Shoah, si è tenuta la lettura scenica di «La settima fiamma (una storia di memoria)», rievocazione delle drammatiche vicende di Nedo Fiano, arrestato all’età di diciotto anni nella nativa Firenze dai nazi-fascisti per essere poi internato insieme ai propri congiunti ad Auschwitz e in altri campi di sterminio, dove rimase prigioniero in condizioni drammatiche dal maggio del 1944 fino alla liberazione da parte delle truppe sovietiche nell’aprile dell’anno successivo.
Rimasto il solo superstite della propria famiglia, si impegnò poi a testimoniare fino ai suoi ultimi giorni la folle e spietata opera sistematica di sterminio perpetrata ai danni del popolo ebreo.
Autore della pièce e suo appassionato interprete, con il suggestivo e raffinato accompagnamento del musicista Giovanni Rovati è Emanuele Turelli, nato sulle sponde del Lago d’Iseo e approdato poi su quelle del Lago di Garda, che Nino Dolfo, sulle pagine del Corriere della Sera, ha descritto sinteticamente così: “Emanuele Turelli combatte le sue battaglie ideali con la passione dell’apostolo da palcoscenico, illuminato da un credo preciso: le parole devono emozionare, informare e formare. Aveva iniziato come giornalista, poi si è scoperto un altro Karma, quello del narratore. Il successo dei suoi monologhi in tutti questi anni gli ha confermato che la diritta via era stata trovata“.
Ne «La settima fiamma» il racconto, seguito con attenzione e partecipazione da un folto gruppo di spettatori, parte da una dichiarazione rilasciata da Benito Mussolini (solo due giorni dopo il vile assassinio che egli stesso aveva disposto a danno degli oppositori del regime fratelli Rosselli, rifugiati in Francia) a Generoso Pope, direttore del Corriere d’America, giornale in lingua italiana di New York, chiaro esempio della cinica e bieca doppiezza del Duce e del suo regime dittatoriale. La riportiamo qui di seguito.
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«Ti autorizzo a dichiarare e a far sapere agli ebrei d’America subito dopo il tuo ritorno a New York che ogni loro preoccupazione sulla situazione dei loro fratelli fratelli di razza e di religione diventi in Italia non può essere che frutto di malevoli informatori. Ti autorizzo a precisare che gli ebrei d’Italia hanno avuto, hanno e continueranno ad avere lo stesso trattamento di ogni altro cittadino e che nessuna forma di discriminazione di razza o di religione e nel mio pensiero, devoto e fedele alla politica dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, devoto e fedele alla libertà dei culti».
Un anno dopo, puntualmente, a smentire queste parole rassicuranti quanto (evidentemente) menzognere, arrivò la promulgazione delle leggi razziali sollecitata dal nuovo padrone, Adolf Hitler.
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La vicenda di Nedo Fiano (raffigurato nella foto sottostante mentre mostra il numero di matricola che gli era stato tatuato sul braccio dagli aguzzini, A5405), narrata sin dalla spensierata fanciullezza e seguita poi passo passo nei tragici passaggi che seguirono all’adolescenza, specchio di quella più generale di una comunità crudelmente e scientificamente decimata dal più ottuso e feroce degli odi, è già avvincente di per se stessa. Basterebbe leggerla sulle pagine di un libro per indignarsi al limite dell’intollerabile e commuoversi fino alle lacrime.
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Raccontata però da Emanuele Turelli, impreziosita dalla sua sensibilità e dalla sua sorprendente presenza scenica, pur inserita in un rigoroso e dettagliato quadro storico, assume una suggestione ancora più toccante, arrivando direttamente al cuore del pubblico che ascolta.
Alla fine, sembra quasi che lo zyklon B, il gas letale a base acido cianidrico usato per sterminare sistematicamente ebrei, zingari, omosessuali, detenuti comuni, oppositori del regime o semplicemente artisti degenerati e liberi pensatori, insieme a chiunque si sospettato di potersi trasformare prima o poi in un granello di polvere capace di inceppare il meccanismo pensato e mosso dal folle delirio del dittatore, si materializzi. E, attraverso le parole dello storyteller, penetri anche nel sangue e nella mente dei presenti all’evento, corrodendo ogni certezza.
E ditemi voi se non è questo un degnissimo modo di ricordare la Shoah.
Vale a dire ciò che in nessun modo può essere dimenticato.
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