Dighero ci mette del suo, ma solo quanto basta.

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Lo spettacolo comincia prima ancora dello spettacolo. Il chiostro di Santa Chiara è ancora più bello, all’imbrunire, reso accattivante, romantico e civettuolo dalle luci appese come stelle, che s’illumiano man mano che scendono le ombre del tardo buio notturno di una limpida e calda sera di fine giugno.

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Perché questo e molto altro è la rassegna «D’estate al Chiostro – Teatro sotto le stelle», particolarmente quest’anno, dopo la lunga segregazione imposta dalla pandemia, con tanta voglia di ritrovare gli spettacoli e i loro protagonisti… e soprattutto di ritrovarsi insieme.

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Di ieri sera, come sempre quando sulla locandina compare il nome di un grandissimo drammaturgo come Dario Fò, premio Nobel della Letteratura nel 1997, c’è al tempo stesso poco e molto da dire.

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Intanto, prima di parlare dei testi, mi piace ricordare la motivazione di quello straordinario riconoscimento, sintetico ma estremamente significativo, che vi invito a tenere ben presente leggendo il seguito:

«Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi.»

La prima parte dello spettacolo è «Il primo miracolo di Gesù Bambino» , una delle giullarate più famose ed esilaranti di Mistero Buffo (lo spettacolo-capolavoro di Dario Fo) centrata sui temi attualissimi dell’emigrazione, del lavoro e dell’integrazione in senso lato. Si narra della fuga della Sacra Famiglia da Betlemme, nell’intento di sottrarsi alla furia di Erode. Giunto a Giaffa, con Maria e Giuseppe impegnati nell’affannosa ricerca di lavoretti che permettano di sbarcare il lunario, il piccolo Gesù si trova da solo, incontrando non poche difficoltà a socializzare con gli altri bambini. Ci riesce, alla fine, grazie a piccoli miracoli, autorizzati malvolentieri dal Divino Padre.

La seconda parte dello spettracolo, invece, è l’altra giullarata intitolata «La parpaja topola» inclusa (insieme agli altri monologhi «Il tumulto di Bologna», «Lucio e l`asino» e «Io, Ulrike Meinhof, grido!») nell’opera del 1982 «Il fabulazzo osceno»

Si tratta di una parabola lieve, poetica, graziosamente erotica ma mai volgare, che riprende un’antica e gustosa storia popolare, risalente al XII secolo, con atmosfere e movenze ravvivate dal genio di Fò. In essa si narra del giovane, candido e ingenuissimo capraio Giovanpietro che, ritrovandosi inopinatamente ricco da fare schifo, viene concupito da tutte le ragazze da marito del villaggio. A spuntarla tra tutte, vincendo i pregiudizi sessisti instillati in Giovampietro dal suo defunto padrone, è la bella Alessia, una fanciulla in fiore, autentica bellezza contadina, concupita dal prete depravato e senza scrupoli Don Faina che la manovra a suo piacimento. Il laido sacerdote, d’accordo con la madre di Alessia (che di nome, non a caso, fa Volpassa) con l’astuzia e con l’inganno, non fatica e espropriare il candido e sprovveduto ragazzo della prima notte di nozze. In un alternarsi di sapidi (e divertentissimi) colpi di scena, al termine di un’accanita caccia alla mitica «parpaja topola» (sui cui espliciti riferimenti di tipo sessuale non v’è certo bisogno di soffermarsi più di tanto) che Alessia dice di aver dimenticato a casa nella fretta dei preparativi per le nozze, a trionfare saranno proprio la purezza d’animo di Giovampietro e la sua passionalità pura e incontaminata.

Forse.

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Tutto ciò doverosamente premesso, è venuto il momento di parlare dello spettacolo. Il che, sostanzialmente, vuol dire parlare di Ugo Dighero, attore di lungo corso che avevo avuto modo di conoscere e di apprezzare in occasione dei alcune delle tantissime apparizioni in tv, ma che, fino a ieri sera, non avevo avuto l’occasione (e la buona sorte, aggiungo a posteriori) di ammirare in palcoscenico.

Brillante, vivace, padrone del testo e della scena, ha avuto l’accortezza di premettere un breve ma significativo preambolo di apertura, spiegando al folto pubblico le origini del gramelot e il significato di quanto stava per accadere in palcoscenico, sottolineando il necessario cambiamento di prospettiva cui è opportuno precedere prima di affrontare un testo di Dario Fò: «L’intento di Fò, nell’approccio alla Divinità, è senz’altro laico, forse irriverente, ma non certo irrispettoso o, ancor peggio, infamante. Ciò che bisogna cogliere nei suoi testi, invece, è la potente e disarmante forza della semplicità dell’anima, capace di vincere anche le più malevole macchinazioni di malvagi e potenti.»

Dopo di che, il bravissimo Dighero s’impadronisce della scena e non se ne spossessa più fino alla fine, tenendo legati a sè, tra franche risate e sottili riflessioni, tutti gli spettatori che, al calar del sipario, lo applaudono sonoramente e ripetutamente. Molto giustamente, a mio parere.

Il suo merito maggiore, in questa occasione? Quello di dare molto di se stesso, con una prestazione attoriale di assoluto rilievo, senza però cambiare, arbitrariamente, il valore intrinseco del testo, nel pieno rispetto di tempi e intonazioni suggerite dal Grande Maestro Dario.

Insomma, una magnifica rappresentazione che stasera (seconda e ultima replica), se ne avrete il tempo e l’occasione e dotazione di biglietti permettendo, vi consiglio caldamente di precipitarvi a gustare.

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