Un mostro in famiglia.

L’inchiesta disposta dalla Procura di Milano è partita dalla denuncia sporta dallo scrittore Ezio Gavazzeni.

I fatti per i quali sono in corso le indagini sono (a dir poco) agghiaccianti: sembra che tra il 1992 e il 1994, durante l’assedio di Sarajevo ci siano stati turpi individui (tra i quali alcuni cittadini italiani) che, pagando un esoso corrispettivo, compravano dall’esercito serbo la possibilità di appostarsi sulle colline della città per sparare a proprio piacimento sui civili bosniaci con fucili di precisione da cecchino..

Entrando nel dettaglio, la notizia diventa ancora più sconvolgente. Pare infatti che le tariffe, che si aggiungevano al rimborso dei “costi fissi di organizzazione”, variassero in relazione seconda al bersaglio preso di mira (e colpito) colpito: quelli più ambiti, dunque più cari erano i bambini, seguiti dalle donne e, per ultimi, i maschi. Molto gradita, va da sé, l’eliminazione dei soldati avversari della Serbia.

Si trattava di un vero e proprio tour vacanziero per cecchini della domenica che, per quanto riguarda il nostro Paese (ma possiamo chiamarlo veramente così, in presenza di questo tipo di cittadini?) comprendeva nel “pacchetto” trasporto aereo da Trieste a Belgrado e, una vota giunti nella capitale, il trasbordo in elicottero fino alle aree di caccia serbo-bosniache, particolarmente Sarajevo e dintorni, con assegnazione di idonee postazioni sicure e posizionate in luoghi rialzati..

La cosa, a quanto pare, andò avanti con una certa regolarità fino a quando i servizi segreti a Sarajevo non avvisarono a cavallo degli anni ’93 e ’94 il Sismi che, secondo un’attendibile testimonianza solo allora avrebbe posto fine alla losca e truculenta pratica dei “safari umani”.

Fin qui la notizia. E, da qui in avanti consentitemi di dare libero sfogo a un incredulo sconcerto, al disgusto, all’amarezza. Al ribrezzo, allo schifo. Alla voglia di dare dimissioni immediate e irrevocabili all’appartenenza al genere umano, se così ancora vogliamo e possiamo chiamarlo.

Sì, lo confesso. Non voglio condividere la mia condizione con quella di danarosi viziati, di ignoranti della cultura e dell’anima, di perversi depravati decisi a sconfiggere (senza porsi scrupolo né limite alcuno) la noia che solo un assoluto vuoto esistenziale può provocare nelle loro anime nere.

In tutto questo, però, ciò che più mi sconvolge non è rappresentato tanto dalle lunghe e avide attese consumate con l’occhio schiacciato sul mirino telescopico di un fucile ad alta precisione, né la gelida pressione sul grilletto al momento di togliere dal mondo un proprio simile, uno o una con alle spalle la propria storia personale e un possibile futuro, bello o brutto che sia; accingendosi a sottrarre un anello di carne e ossa da una cerchia di affetti ad esso legati e, spesso, da esso uìin qualche modo dipendenti.

No. È il dopo.

Il dopo che? Il dopo quando?

Il dopo del ritorno a casa, dove questi ignobili assassini, consumato il loro maledetto safari, ritrovano moglie, figli, anziani genitori.

Un bimbo o una bimba dai riccioli neri, proprio come quello o quella che hanno fulminato il giorno prima, piantandogli un proiettile in fronte.

Una donna dai lunghi capelli biondi, o castani, o rossi, proprio come quelli della parrucchiera che hanno freddato sorprendendola da lontano su un marciapiede della “Via dei Cecchini”, mentre, magari, vagava alla ricerca di un pezzo di pane da portare a casa, per metterlo in tavola a cena.

Una vecchia dalla chioma candida, un anziano impegnato a sopportare i mille acciacchi del tramonto della propria vita, ma ancora desideroso di spendere serenamente e fino in fondo il poco tempo che gli resta in questo mondo, per quanto avariato…

Ecco questa immagine, questa scena, proprio non riesco a mandarla giù. «Dove sei stato amore?» (aggiungendo alle parole un bacio e un morbido abbraccio) «Dove sei andato, papà?» (arrampicandoglisi in grembo).

«Sono stato a caccia con gli amici e… mi sono divertito molto. Così domani potrò tornare al lavoro di nuovo rilassato, carico e motivato come si deve».

Individuare, acciuffare e sbattere in galera al più presto tutti coloro che si sono resi responsabili del macello, cacciatori e organizzatori.

Accertarne le effettive responsabilità e giudicarli con il dovuto rigore, applicando senza sconti le pene previste dal codice penale.

E, soprattutto, fare in modo che, sulle loro teste, nessuno escluso, ricada un’infamia perenne.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è PatRosso.jpg   Patrizio Pacioni (*)

2 commenti su “Un mostro in famiglia.

  1. Non posso che condividere quanto scritto. Ergastolo senza alcuno sconto di pena ma non più, lo Stato non può mettersi al loro livello.

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