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Sulla Belladonna così recita Wikipedia: «Nonostante l’aspetto invitante e il sapore gradevole, le bacche sono velenose per l’uomo e l’ingestione può provocare una diminuzione della sensibilità, forme di delirio, sete, vomito, seguiti, nei casi più gravi, da convulsioni e morte».
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Dunque, se davvero la “belladonna” è un potente veleno a base di atropina, si può tranquillamente affermare che Gabriele D’Annunzio, altrimenti conosciuto come il Vate, l’Orbo Veggente e chissà quanti altri appellativi, nel corso della sua turbolenta vita sentimental-sessuale, se ne era ampiamente mitridatizzato.
Altrettanto si potrebbe dire (ma mi astengo rispettosamente dal dirlo) per Costanzo Gatta, non per sue risapute esperienze di vita vissuta (o meglio, questo -sempre che lo voglia- potrebbe confessarlo solo di propria volontà e iniziativa con un clamoroso outing) quanto il tempo speso e l’impegno profuso nello studio, oltre che delle qualità artistiche e delle opere, del vastissimo gineceo del sommo Poeta abruzzese, bresciano per adozione.
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Con la solita e consumata abilità da bravo divulgatore e spericolato giocoliere della parola, nonché di profondo conoscitore del bresciano e dei suoi personaggi e tradizioni, e prendendo spunto dall’interessante e ponderoso saggio di Franco Di Tizio, dal suggestivo titolo di «Lina Cavalieri, massima testimonianza di Venere in Terra» (edito da Ianieri) Costanzo Gatta non si lascia sfuggire l’occasione per una nuova e sempre inebriante escursione tra le centinaia che compiacquero, spesso a domicilio, i mai sazi appetiti carnali di D’Annunzio.
Terribili gaffes del Comandante (termine di cui si registra in questi ultimi tempi un’autentica inflazione, sia nella declinazione maschile che in quella femminile) comprese. Prima tra tutte quella, terribile, sulla lunghezza delle gambe della suscettibilissima “donna più bella del mondo”.
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Bonera.2