Cinque donne sull’orlo di una crisi di nervi? No, quelle descritte da Paola Barbato, protagoniste del suo più recente romanzo, intitolato «La torre d’avorio», vanno oltre, molto oltre.
Nella profonda crisi che da anni le dilania, ci sono precipitate come in un buio e spaventoso abisso che ne ha cambiato radicalmente e definitivamente le vite.
L’eco sinistra delle azioni violente di cui si sono fatte artefici (e delle quali nessuna di loro nega la propria piena responsabilità) semplicemente le ha collocate negli unici posti in cui possono dimorare le loro povere anime: per anni in una clinica psichiatrica criminale, (ma in nome del politically correct è più corretto chiamarla struttura psichiatrico-giudiziaria) per sempre in un’oscura follia sempre sull’orlo della tracimazione.
L’innesco è costituito da un accadimento e da un tema che si iscrive alla perfezione nel modus narrandi caro a Paola Barbato: qualcuno nascosto nell’ombra, cospira per fare perdere definitivamente quella ragione che resta a Mara, affetta dalla sindrome di Münchhausen, sinistramente attratta da ogni tipo di veleno, e fallita omicida della propria famiglia, attraverso l’accusa di un delitto che non ha commesso e non ha mai immaginato di commettere.
Ciò costringe la protagonista a uscire dal rifugio-prigione, fatto di scatoloni di cartone bianco, vale a dire la Torre d’Avorio, in cui si è autoreclusa per non commettere nuovi errori che potrebbero causare tragiche conseguenze a qualcuno, chiunque esso sia.
Le altre Moira, Fiamma, Maria Grazia e Beatrice, più o meno spontaneamente, una dopo l’altra accorrono in suo soccorso, portando ciascuna il fardello del proprio passato e delle proprie colpe e il supporto delle abilità che fanno loro capo, come del resto a ogni essere umano.
E se da sole sono estremamente fragili, una volta che la vita le mette insieme, sottoponendo una di esse (Mara, nella vita precedente Mariele) a una severissima prova capace di attrarre le altre come una calamita con aghi di cucito, costituiscono, si potrebbe dire loro malgrado, un circolo pieno di energia, quasi mai positiva, ma comunque addensante, capace di esprimere una squadra tenuta insieme da legami viscerali e pervasa di possente, malsana energia.
Basti questo per quanto riguarda l’intreccio, anzi forse sono già sceso fin troppo in dettaglio, parlando di un thriller.
Quello che invece mi preme di mettere in luce è come, partendo da una situazione del genere, l’autrice di nascita milanese, ma resa gardesana dal proprio percorso di vita, si trovi a nuotare nell’acqua (torbida) che meglio conosce e che più le è d’ispirazione.
Le complesse e intricate vicende, dense e di colpi di scena e disseminate di false piste che si succedono nelle circa quattrocento pagine di questo suo nuovo romanzo, dense di personaggi negativi ciascuno a modo suo, tra i quali si arrabattano solo un funzionario di polizia sagace ma scoglionato e un tenero cavaliere bianco che (poi bianco non è, rispondendo all’identità del giovane rider indiano Anand “dal sorriso scintillante”) tengono il lettore avvinto fino all’ultima pagina, regalando agli amanti del genere gli unico momenti di tensione che qualcuno può giudicare gradevoli: quelli che si possono sospendere e rimandare al giorno dopo semplicemente richiudendo il libro che si sta leggendo.
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Non solo. Ancora una volta, Paola, si compiace della lettura psicologica delle sue donne, ormai talmente numerose da poter figurare in una non disprezzabile galleria di ritratti di famiglia, scandagliandone le menti destabilizzate, ricostruendone il funzionamento con la perizia e l’attenzione di un orologiaio alle prese con un cronometro rotto. Minando alla base le autovalutazioni di ciascuna di esse, per arrivare alla radice ultima del loro disagio.
E, alla fine…
Alla fine dovrete arrivarci da soli, e vi garantisco che non vi pentirete di avere affrontato il viaggio.
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Titolo: La torre d’avorio
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Autore: Paola Barbato
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Editore: Neri Pozza
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Anno edizione: 2024
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Pagine: 410
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Prezzo: 20 €
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ISBN: 978-88-545-3020-1
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Il Lettore