Anche Mara giocava a palla. Con la vita e con le vite.

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LA VITA (E LA MORTE) DI MARA CAGOL
(estratto tratto dalla «Enciclopedia delle donne»)

Margherita è l’ultima di tre figlie: il padre gestisce a Trento la “Casa del sapone”, la madre lavora in una farmacia.
Margherita ha come guida spirituale un prete gesuita, nei pomeriggi tiene compagnia agli anziani negli ospizi di Trento. È sportiva: scia, gioca a tennis, le piace camminare in montagna. Alle superiori si iscrive a ragioneria e si diploma con la media del 7. Durante la scuola comincia a studiare chitarra classica e in breve diventa la terza chitarrista più brava d’Italia, suonando anche all’estero: potrebbe essere quella la strada da intraprendere. Invece no, si iscrive alla facoltà di sociologia a Trento.In Italia non esiste nulla di simile. Tra i professori ci sono Beniamino Andreatta e Romano Prodi.Tra gli studenti Renato Curcio e Mauro Rostagno, che dividono una casa in riva al fiume Adige.
È il 1966 e gli studenti di Trento decidono di occupare l’università: è il primo caso in Italia. Anche Margherita partecipa a questa protesta ma non rimane a dormire in facoltà, perché i genitori non glielo consentono, deve rientrare a casa alle 19,00…L’anno successivo comincia a collaborare al giornale «Lavoro Politico» che nel 1968 diventa un periodico di riferimento per la sinistra. Alla Facoltà di Sociologia arriva come rettore Francesco Alberoni. A lui Margherita propone la tesi: uno studio sulla Qualificazione della forza lavoro nelle fasi dello sviluppo capitalistico. Si laurea il 29 luglio del 1969 con 110 e lode.
Il primo agosto Margherita e Renato si sposano, contro il parere del padre di lei, che non reputa Curcio capace di prendersi cura della figlia. Il matrimonio verrà celebrato in chiesa, nonostante quello che entrambi pensano del “matrimonio borghese”, ma Margherita vuole evitare la rottura con la sua famiglia. 
Siamo in pieno “autunno caldo”: scaduto il contratto nazionale dei metalmeccanici, le iniziative di protesta sono continue. Margherita e Renato frequentano il CUB (Comitato Unitario di Base) della Pirelli e i Gruppi di Studio che si costituiscono nelle grandi fabbriche: SIT Siemens, Alfa Romeo, Marelli; conoscono Mario Moretti e Alberto Franceschini.
Dal convegno del Collettivo Politico Metropolitano ( CPM) di Pecorile (settembre 1970) nasce il primo nucleo che darà vita alle Brigate Rosse. L’incontro viene organizzato da Franceschini, il quale di Margherita dirà: “L’impressione che ne ebbi fu di grande fiducia. Mara, che pur non appariva e non ci teneva a farlo, non era considerata da nessuno una figura secondaria.”
Curcio nel suo Progetto Memoria scriverà: “Che lei abbia voluto l’organizzazione armata quanto me, se non più di me, è un fatto.”
Il gruppo decide di “passare all’azione” ma ci vuole una sigla. In memoria delle brigate partigiane decideranno di usare la parola “brigata” e Margherita proporrà “rossa”. Come simbolo verrà scelta la stella a cinque punte iscritta in un cerchio, la stessa utilizzata dai Tupamaros uruguaiani.
Margherita sceglie il suo nome di battaglia: Mara.
Nel 1971 Mara rimane incinta, ma perderà il bambino al sesto mese, dopo una caduta dal motorino.
Nel 1972 il passaggio definitivo alla clandestinità e alla lotta armata li farà rinunciare per sempre all’idea di un figlio. In seguito all’occupazione delle case popolari di Quarto Oggiaro, operazione della quale era l’anima, Mara viene arresta per la prima e unica volta: rimane a San Vittore per cinque giorni.
Le BR alzano il tiro al “cuore dello Stato”. Il bersaglio è il giudice Mario Sossi, e il “piano” richiederà un anno e mezzo. Sossi viene sequestrato nell’aprile 1974 da una ventina di brigatisti a Genova, compresi Cagol e Franceschini. La prigionia di Sossi durerà 35 giorni e i giornali quasi non parleranno d’altro fino alla sua liberazione. L’8 settembre del 1974 Renato Curcio e Alberto Franceschini vengono arrestati a Pinerolo, denunciati da un infiltrato – Silvano Girotto, detto Frate Mitra. Vengono presi altri brigatisti, la Cagol rimane sola a portare avanti la colonna torinese.
Il 18 febbraio 1975 Margherita, con una parrucca bionda e altri cinque uomini arriva al carcere di Casale. È giorno di visite, suona il campanell
o con un pacco in mano. Appena le viene aperto punta un mitra verso il piantone.
Curcio è al piano superiore, scende, verrà liberato senza sparare un colpo. Il «Corriere della Sera» commenterà: “Un’umiliazione dello Stato” e il generale Dalla Chiesa inveirà contro chi ha lasciato il capo delle Brigate Rosse in un carcere “di cartapesta”.

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Mara viene uccisa nel 1975 nel corso di uno scontro a fuoco, le cui modalità sono state ricostruite anche in modo alternativo rispetto alla “bversione ufficiale”, nei pressi di una cascina nei pressi di Canelli, nella quale era stato rinchiuso l’industriale Vittorio Vallarino Gancia, industriale dello spumante, rapito per procurare fondi alle Brigate Rosse.

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LO SPETTACOLO

La casa di Margherita, che poi diventerà Mara, è uno stagno adagiato in volute nebbia. Una famiglia della piccola borghesia, chiusa in se stessa e nell’alternarsi di giorni sempre uguali, senza entusiasmo, senza prospettive, senza obbiettivi, senza sogni da realizzare, neanche da pensare, senza niente. Una famiglia grigia, come quel muto bianco e nero che fluisce da una televisione sempre accesa in palcoscenico. Le inutili parole tra padre e figlia vengono scambiate nella lingua più rassicurante che ci sia: il dialetto trentino.
Sono gli studi di Margherita, a smuovere in qualche modo la situazione, cambiando gli accenti, alternando le banali e ripetitive conversazioni domestiche con una tagliente enunciazione schematicamente politica e intessuta di dogmi, propria della sinistra estrema e arrabbiata degli anni di piombo.

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Sì, qualcosa cambia, repentinamente, perché «Non è la coscienza a determinare la vita, ma la vita che determina la coscienza», come dice la ragazza, sempre più Mara e sempre meno Margherita.
«Mi viene sempre la nusea, quando penso a una vita normale» confessa Mara, ed è istantanea liberazione interiore: un fuco che, all’improvviso, uscendo dal bozzolo, si trova pipistrello, piuttosto che farfalla
Va avanti nel tempo, segue e scandisce lo scorrere degli anni ma, come in certi brutti sogni, resta fermo sul posto, sempre allo stesso spiazzante livello di incomunicabilità, il non-dialogo tra padre e figlia.
Presenti nei riferimenti ma lontani, al punto di lasciare trasparire assenze di autentici agganci con quell’estenuante e lacerante confronto generazionale, la mamma e lo stesso Renato Curcio, di cui si avverte la fondamentale importanza nella vita di Mara Cagol, soprattutto, però, nella funzione di rafforzamento di idee già elaborate e di decisioni già prese.

Sarà la morte (violenta) di Mara e quella (annunciata e imminente) del suo genitore, che li riuniranno finalmente in un’altra dimensione?

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Francesca Porrini e Andrea Castelli, a fine spettacolo,
raccolgono gli applausi tributati dal pubblico bresciano.

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Il testo (cronaca dell’evolversi di una interpretazione estrema e totalizzante della politica, individuale e collettiva, più che narrazione di una vicenda umana) è per forza di cose, piuttosto complesso e concettuoso, e ciò non giova, per quanto ovvio, alla dinamicità. Altrettanto dicasi per la scelta, del resto del tutto coerente, se non addirittura necessaria, di lasciare largo spazio all’uso del dialetto, che a volte, inevitabilmente, toglie qualcosa alla completa comprensibilità. Degna di menzione l’interpretazione dei due interpreti che, comunque, riescono a non appiattire il ritmo della recitazione e a mantenere alta la tensione emotiva dei personaggi e degli spettatori che gremiscono il Teatro Santa Chiara Mina Mezzadri.
Il pubblico bresciano mostra chiaramente di avere apprezzato, tributando, al chiudersi del sipario, lunghi e ripetuti applausi.

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GuittoMatto