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Attenzione: qui si trattano OVVIETÀ NON PERCEPITE: spunti di riflessione su quegli argomenti che sembrano banali e scontati ma che, per molteplici quanto validissime occasioni, molto spesso non risultano affatto tali.
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Da qualsiasi punto di vista le si guardi, o comunque le si chiami, oggi molte case di riposo in Italia rassomigliano ai lager. Limbi, nella migliore delle ipotesi. Anticamera, per chi ci crede, dell’inferno o del paradiso, e, per chi non ci crede, del nulla. Sì, ho scritto proprio “lager”, ovvero campi di concentramento: alcuni bellissimi (sui 5.000 euro/mese), altri al limite della decenza (sui 2.200 euro/mese).
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Non basta essere anziani (in un periodo storico in cui quelli come te sono bollati come “non più socialmente utili”) e, in molti casi, non più autosufficienti. Ti prendono e ti sbattono in un posto che non conosci, con gente che non conosci. Costretto a subire orari e ritmi che non sono i tuoi.
E allora si perde definitivamente anche l’unica cosa che era rimasta: l’identità. E, a volte, anche la dignità.
Dov’è scritto che un anziano deve vivere in comunità? Soprattutto se ciò equivale a tornare ad una specie di asilo nido, dove si sta l’intero giorno tutti insieme appassionatamente?
I bambini, per crescere, hanno bisogno di confrontarsi con i coetanei, di socializzare. Loro devono scoprire la vita, quella che hanno tutta davanti.
L’anziano, no. L’anziano la vita l’ha già scoperta. E, spesso, già subita. Di gente ne ha incontrata e conosciuta tanta, di ogni genere ed estrazione, e sa benissimo che le persone non sono sempre belle persone. Non che l’anziano non abbia bisogno di relazionarsi (così come ogni altro essere, umano e animale). Ma ha il diritto di relazionarsi con chi gli è più affine e, magari, di scegliere con chi vuole relazionarsi.
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Parliamo anche del personale delle RSA.
Cominciamo dai medici. Nelle case di riposo, spesso, vanno i medici meno motivati, quelli che non trovano la collocazione ideale neppure nei laboratori di analisi. È forse per questo che il turnover dei medici nelle case di riposo è così elevato: probabilmente, non appena trovano qualcosa di meglio, se ne vanno. Lo stesso dicasi per gli infermieri, generalmente sottopagati rispetto ai colleghi che lavorano in altre strutture.
E passiamo agli Operatori Socio Sanitari (OSS), quelli che fanno i lavori più umili e più faticosi, quelli che dovrebbero, almeno, avere uno spirito simile a quello di Madre Teresa di Calcutta. In molti casi, provengono da cooperative sociali che li allocano là dove serve un posto. Anche loro pagati pochissimo, spesso sfruttati. In moltissimi casi, sono stranieri; parlano male la nostra lingua, non conoscono i nostri “costumi”, la nostra cultura e, quindi, si relazionano con difficoltà con i “poveri” ospiti e con i loro familiari.
Nelle RSA più grandi, quelle che ospitano dai trecento anziani in su, in molti casi, prima dello scandalo Covid, non venivano rispettati i più elementari protocolli di igiene e le infezioni nosocomiali erano all’ordine del giorno. Le infezioni da Clostridium difficile si portavano all’altro mondo un bel po’ di persone ogni mese. «Ma tanto sono anziani, no? Che cosa ci vuoi fare, di qualcosa si deve pur morire! Senza contare il bel turnover di clienti!»
A tutto ciò, si aggiunge un altro problema. Nel 99% dei casi, la casa di riposo non la scegli. La subisci. Nell’era pre-Covid, trovare un posto letto in una RSA, in camera doppia, a 2.500-3.000 euro/mese, equivaleva a vincere un terno al lotto. È il grande business delle RSA, ragazzi: liste di attesa lunghe, lunghissime. Perché -qualora non ve ne foste ancora accorti- il nostro è un paese di vecchi.
Con la burocrazia che ci contraddistingue, c’era da compilare il famoso modulo sine qua non, far riempire gli allegati di natura medico-sanitaria al riluttante dottore di medicina generale, chiamare per informarti, perché il tuo parente non era più gestibile a casa, e loro, tutte le RSA intendo, rispondevano con la stessa formula ciclostilata: «Signora, sa, qui siamo pieni. Forse tra sei mesi, più probabilmente un anno!»
Poi è arrivato il Covid che ha fatto emergere lo scandalo delle RSA. E, tra i loro proprietari e gestori, c’è persino chi ha il coraggio di lamentarsi perché è finito il business…
Era prevedibile che, con questa crisi sociale, sanitaria e economica, la gente “si arrangiasse”. I soldi sono pochi e pochi sono coloro che si possono ancora permettere una RSA. Tanti sono quelli che hanno perso il lavoro e ora, le badanti, magari improvvisate, si trovano a mucchi e a prezzi stracciati.
Sono conscia che questa analisi -che, ahimè, nasce da un’esperienza dolorosamente vissuta sulla mia pelle- possa apparire un po’ troppo severa. Voglio pensare che probabilmente, da qualche parte, esistono oasi felici (magari a cinquemila euro/mese, escluso manicure, pedicure, parrucchiere e lavanderia, ovviamente).
Dunque? Dunque è venuto il tempo di modificare RADICALMENTE l’approccio all’anziano. Perché quell’anziano, che ora vive i suoi ultimi giorni in RSA, siamo i noi di domani!
Come, nei primi anni dello scorso secolo, il metodo Montessori rivoluzionò la pedagogia, così oggi occorre trovare un metodo nuovo, più intelligente, più giusto, più umano, per gestire l’ultima fase della vita, che spesso copre un lasso di tempo di oltre vent’anni! Abbiamo chiuso i manicomi. Possiamo chiudere anche le RSA, perlomeno così come sono concepite oggi.
Non bisogna, però, essere impreparati. Ci vuole un progetto forte, importante, condiviso. Ci vogliono menti intelligenti e strutturate.
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Un’ultima domanda, prima che me la ponga qualcuno d voi: cosa c’entra tutto ciò con le nostre amate “ovvietà non percepite“?
Forse la considerazione (più che ovvia e -ahimé! -poco percepita) che ai giorni d’oggi la vecchiaia non è più una questione di mesi, in attesa della morte, ma, nella nostra società, dove si vive tranquillamente fino a novant’anni, è una fase della vita lunga e importantissima, che dev’esseregestita nel migliore dei modi? I geriatri americani già da tempo suddividono gli anziani in tre gruppi, utilizzando l’età come criterio, ma se all’età aggiungiamo la variante delle possibili patologie e/o della maggiore o minore autosufficienza, i sottogruppi diventano numerosissimi. Dai 65 ai 75 ci sono gli young old, dai 75 agli 85 gli old old, dagli 85 in su i big old.
Ciò premesso, è evidente quanto sia doveroso, oltre che necessario, rendere le strutture che fanno assistenza agli anziani flessibili e attente allo stadio di senectude dell’anziano, ma anche a quello che è stato il suo percorso di vita. Ripeto: gli anziani di domani siamo noi! Con il nostro bagaglio di cultura o ignoranza, di esperienza, di vita vissuta e decodificata ognuno a suo modo, con le nostre passioni, i nostri gusti e disgusti. Molti non ci pensano e vedono gli anziani come “cosa” diversa da sé. Ecco forse è proprio questa l’ovvietà non percepita.
Ecco perché ci aspettiamo molto dalla commissione Paglia (organismo istituito con apposito decreto dal Ministro della Salute Roberto Speranza per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana. Presieduto da Mons. Vincenzo Paglia, gran cancelliere del Pontificio Istituto Teologico per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, ne fanno parte illustri personalità del mondo scientifico e sociale). Ci aspettiamo risposte concrete e un’attuazione rapida delle direttive che ne sortiranno. Ci auguriamo che dai suoi lavori scaturiscano, oltre che parole, programmi che consentano di mettere rapidamente in pratica una rivoluzione che da più parti è attesa.
Per scongiurare il pericolo, a oggi più che concreto, di finire domani a rincitrullirci tutti, da mattina a sera, davanti a un televisore, in sala comune.
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Patrizia Serra (*)
(*) Patrizia Serra, detta Zizzia (solo da sua madre), farmacista, ma anche copywriter e direttore creativo. Quindi multiforme o incasinata. Comunque da sempre fortemente resiliente, anche in era ante Covid.
Si perde anche la LIBERTA’ di fare quello che si vuole.
Qualcun altro organizza la tua vita.
Io spero di andarmene prima di essere costretta ad entrare in casa di riposo