Anagrafe di Monteselva – Elettra Santacroce

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Mi chiamo Elettra, Elettra Santacroce, e quando capitai a Monteselva per la prima volta era il giorno del mio ventunesimo compleanno: un anno e mezzo fa, più o meno, in arrivo direttamente dall’Inferno.

Al tipo della reception, quando mi vide entrare nella hall dell’Hotel Splendor, mancò poco che non gli venisse un colpo. Ero scarmigliata, con gli occhi allucinati e completamente fradicia di pioggia; avevo gli stivali inzaccherati di fango e le maniche della camicia macchiate di sangue dal gomito ai polsini.

-C’è una camera?- chiesi, appoggiando la valigia fradicia di pioggia sul bancone.

-Prego?- rispose lui, che non riusciva a togliermi gli occhi di dosso, stazionando con lo sguardo, nonostante tutto, sul quarto bottone della camicetta.

L’unico abbottonato, a quanto ricordo.

-Una camera matrimoniale uso singola.- precisa.

-Quando mi stendo mi piace farlo sopra un letto grande.- precisai, sfilandomi di dosso lo straccio bagnato che cercava invano di spacciarsi per un giubbotto.

Gerardo

(che si chiamasse così lo seppi solo qualche tempo dopo, precisamente il giorno in cui qualcuno mise fine alla sua miserabile esistenza terrena, ma questa è tutta un’altra storia)

mi guardò con l’espressione vispa di uno stoccafisso. Scelse una chiave dalla rastrelliera, quella col numero 13, tanto per restare in tema con la serata e me la porse.

-Ehm… potrei avere un documento? Sa, sono tenuto a identificarla e…- bisbigliò, pregando dentro di sé il suo dio, sempre che ne avesse uno, di non avere fatto la domanda sbagliata alla persona sbagliata nel momento sbagliato.

A pensarci bene mi sembra di ricordare che, intanto, con la mano sinistra avesse fatto un movimento furtivo. Come pigiare il bottone dell’allarme collegato con i carabinieri, tanto per fare un esempio.

Gli allungai la carta d’identità, il cui colore era stato -diciamo così- ravvivato da ciò in cui era caduta nel momento in cui…

Ma andiamo per ordine.

Una volta in camera mi sfilai i panni sporchi, li ammonticchiai in un angolo ai piedi del letto e mi infilai sotto la doccia.

Ero lì da mezzora, e ci sarei rimasta chissà quanto, se qualcuno non si fosse messo a bussare furiosamente alla porta della stanza.

-Aprite! In nome della legge!- urlava una voce dall’inequivocabile accento calabrese.

 

(continua?)