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Natalia Aspesi è una grande giornalista. Si può essere d’accordo o meno con certe sue prese di posizione, ma l’enunciato non cambia. L’ho sempre pensato e sempre lo penserò, così come ho sempre letto con interesse e piacere gli articoli che portano la sua firma, e certamente continuerò a farlo anche in futuro.
Eppure.
Eppure anche ai migliori può succedere che, con la canicola estiva, salti, o perlomeno si interrompa (ci si augura provvisoriamente) qualche collegamento tra la mente e la lingua.
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Così la nostra Natalia, invitata come opinionista nel programma «Formato famiglia» (in onda poco fa su Radio Rai 1) per parlare del caso di Saman, la ragazza pakistana uccisa dai parenti in nome della più ripugnante tradizione tribale e dell’integralismo più becero, esordisce con il dire che lei di islamismo e di Pakistan non ne sa praticamente un fico secco, quindi preferisce non parlarne.
Un po’ come se un giornalista della Gazzetta, invitato a partecipare a una trasmissione sportiva, premettesse, prima di esprimere il proprio pensiero che sì, vabbè, parlerà di calcio, ma personalmente non ha la minima idea di quanti giocatori compongano una squadra, né, tantomeno; di cosa sia un rigore o un fuorigioco.
Il problema, però, è che la sempre vispa Natalia (purtroppo per lei e per gli ascoltatori) non si sia fermata lì, tricerandosi nel comunque dignitoso silenzio dell’ignorante che sa e professa orgogliosamente di non sapere.
E no.
Consigliata da chissà quale demone burlone, o semplicemente, (come lasciato trapelare nel titolo di questo articolo) colpita da un fetentissimo colpo di sole, varca il confine della decenza e comincia a sproloquiare avventurandosi in una serie di argomentazioni una più bizzarra dell’altra.
«Cosa cavolo abbiamo da indignarci, noi italiani, visto che nel nostro Paese fu varata nel 1983 (?!) la legge cosiddetta del delitto d’onore che minimizza responsabilità di un uomo che uccida sua moglie, per esempio, a seguito di un tradimento?» s’indigna inviperita, con il sottofondo sonoro assai poco radiofonico di un frenetico scartabellare di appunti, aggiungendo subito dopo: «E dove lo mettiamo l’istituto del cosiddetto matrimonio riparatore, che prevedeva l’estinzione del reato di violenza carnale nel caso che lo stupratore di una minorenne accondiscendesse a sposarla, salvando l’onore della famiglia?»
Carissima signora Aspesi, prenda fiato e si calmi, per favore. Anche un gran respiro e un bel bicchiere di acqua fresca potrebbero servire efficacemente allo scopo.
Intanto le ricordo che cinquant’anni di distanza (mezzo secolo!), in un’epoca che muta e corre via in modo sempre più tumultuoso e assai più rapidamente di prima, rappresentano davvero un’era geologica. Che senso ha comparare la situazione di oggi di uno stato, di una nazione, di un popolo, con quello di tanto tempo fa di un altro popolo? In Italia non siamo nel paradiso del diritto, dell’equità e della giustizia, sarà probabilmente vero, ma le cose sono cambiate e stanno ancora cambiando (ok! ok! Magari troppo lentamente, lo concedo!). E on certo in senso peggiorativo per i diritti delle cittadine e dei cittadini, comunque si vedano le cose.
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Inoltre la pregherei di fare attenzione alle date. Intanto il “delitto d’onore” faceva parte del Codice Rocco (che a sua volta riprendeva concetti già presenti nel Codice Zanardelli).
Intanto si tratta di una disposizione che il 5 agosto 1981 (legge 442) fu abolita, non promulgata, a seguito di un’evoluzione scandita dalle seguenti tappe: abrogazione del reato di adulterio nel 1968, introduzione del divorzio nel 1970 (legge 898), riforma del diritto di famiglia nel 1975 (legge 151), introduzione dell’aborto nel 1978 (legge 194).
Quanto al costume del matrimonio riparatore, si rassicuri, in Italia non esiste più: sopravvisse anche quello solo fino al 1981.
Aggiungerei, sommessamente, che una cosa è una legge iniqua, un’altra l’esercizio di un’autentica macelleria domestica la cui pratica, in certi paesi e da certe culture, risulta piuttosto diffusa e, soprattutto e purtroppo, accettata da larghe porzioni della società.
Oggi, non cinquant’anni fa.
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