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Attenzione: qui si trattano OVVIETÀ NON PERCEPITE: spunti di riflessione su quegli argomenti che sembrano banali e scontati ma che, per molteplici quanto validissime occasioni, molto spesso non risultano affatto tali.
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La scorsa settimana ho assistito ad un webinar organizzato da un famoso IRCCS milanese. Il tema era la memoria ovvero la perdita della memoria che quasi sempre accompagna vari tipi di demenza senile, tra cui la malattia di Alzheimer, forse la più nota tra le demenze senili e, anche, la più diffusa.
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A parlare, si sono alternati vari specialisti con argomentazioni alquanto interessanti. Ma ciò che mi ha colpito di più è stata un’affermazione, un concetto, espresso da una giovane neuropsichiatra: la memoria rappresenta la nostra identità. Noi siamo e ci percepiamo da quello che siamo stati. Senza il ricordo del passato, ci è impedito di vivere il presente e di avere una progettualità per il futuro. È ovvio, semplice. Eppure, non ci avevo mai pensato!
La persona che perde la memoria, non avendo più identità, è costretta a “vegetare” in un presente che le appare senza senso, senza punti di riferimento. A galleggiare in un vuoto cosmico. Perché avendo perso la memoria, non solo non riconosce gli altri, ma neppure se stessa.
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In tutto questo, la buona notizia è che, recentemente, la FDA ha approvato per la cura dell’Alzheimer un anticorpo monoclonale che riduce l’accumulo a livello cerebrale di una proteina – beta amiloide – direttamente coinvolta nell’eziopatogenesi della malattia.
Ma ritorniamo al concetto espresso dalla brava neuropsichiatra.
Questa cosa della perdita di memoria e, quindi, di identità mi ha fatto pensare ad un’altra ovvietà da me non percepita prima. Di come la natura, se lasciata a se stessa, sia “naturalmente” pietosa. Di come la natura ci accompagni “pietosamente” verso la morte, allontanandoci gradualmente dalla vita e riportandoci lentamente ad una condizione, per così dire, neonatale. Quasi a chiudere un cerchio.
Il distacco dalla vita, la natura, ce lo offre in molti modi.
Spesso inizia dalla vista, con un pizzico di presbiopia. A volte si rivolge all’udito, con una ridotta percezione delle parole e dei suoni. Più clemente con il gusto, aggredisce il tatto con una giusta dose di artrosi che, se si estende a schiena e arti, limita l’esplorazione dei grandi spazi, e concentra la nostra vita in casalinghe consuetudini.
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La clemenza della natura nei confronti del gusto è, tuttavia, compensata da un certo accanimento contro i tessuti dentali e paradontali che ci induce all’assunzione di cibi morbidi e papposi.
C’è poi la perdita della libido e, a volte, quella della memoria (di cui sopra). E così via… A questo punto, siamo praticamente pronti per il distacco.
E invece no! Perché l’uomo, l’essere umano, si ostina a contrastare il naturale corso delle cose. Nuovi farmaci. Nuove tecniche. Nuove protesi. Nuova giovinezza.
E se si pensa alla natura, cioè al cammino che ci ha (avrebbe) destinato la natura, il dubbio, a volte, viene: cosa è meglio? Lottare, resistere o lasciarsi andare?
Nell’attesa di sciogliere il dilemma, in qualsiasi modo voi la pensiate, io sono con Marcello Marchesi, il famoso signore di mezza età, che era anche un arguto autore di aforismi: «L’importante è che la morte ci colga vivi»!
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Patrizia Serra (*)
(*) Patrizia Serra, detta Zizzia (solo da sua madre), farmacista, ma anche copywriter e direttore creativo. Quindi multiforme o incasinata. Comunque da sempre fortemente resiliente, anche in era ante Covid.